CARLA RESCHIA, La Stampa 22/8/2010, pagina 14, 22 agosto 2010
Due miliardi di sudditi Il business di Sua Maestà - Lasciato sullo sfondo, surclassato nelle cronache quotidiane da istituzioni recenti e sgomitanti come l’Unione europea o dalla storica e un po’ appannata autorità dell’Onu, il Commonwealth opera in sordina, con britannico understatement, pago di rappresentare, dall’Africa all’Asia, dalle coste del Pacifico ai Caraibi, un miliardo e settecento milioni di abitanti, vale a dire circa il 30% della popolazione mondiale
Due miliardi di sudditi Il business di Sua Maestà - Lasciato sullo sfondo, surclassato nelle cronache quotidiane da istituzioni recenti e sgomitanti come l’Unione europea o dalla storica e un po’ appannata autorità dell’Onu, il Commonwealth opera in sordina, con britannico understatement, pago di rappresentare, dall’Africa all’Asia, dalle coste del Pacifico ai Caraibi, un miliardo e settecento milioni di abitanti, vale a dire circa il 30% della popolazione mondiale. È molte cose insieme e alcune sembrano in contraddizione tra loro: il «bene comune», questo è il significato della parola - in uso in Inghilterra dal XV secolo - nel 1949 ha pudicamente lasciato cadere l’aggettivo «britannico» per diventare Commonwealth delle nazioni e raggruppa una confederazione di 54 (53 se si prescinde dal Regno Unito che ne è a capo), «Stati indipendenti e sovrani che si consultano e cooperano nell’interesse comune dei loro popoli e per promuovere la comprensione internazionale e la pace nel mondo». A parte questi lodevoli intenti li affratella la passata appartenenza all’Impero con la maiuscola, la sterminata area dei domini di Sua Maestà che ancora all’inizio del secolo scorso occupava 30 milioni di chilometri quadrati, ospitava un quarto della popolazione mondiale e deteneva il titolo di secondo più esteso impero di tutti i tempi dopo quello, in verità effimero, di Gengis Khan. Ci sono anche le Olimpiadi Tutti i membri, ad eccezione del Mozambico, sono infatti direttamente ex colonie o sono legati sotto l’aspetto amministrativo a un altro Stato della confederazione. Che il Commonwealth sia il proseguimento dell’Impero con altri mezzi, adeguati alla mutata sensibilità planetaria, è diceria diffusa quanto ovvia da pensare: la lingua comune è naturalmente l’inglese e tutti gli Stati membri, siano repubbliche o monarchie, riconoscono come capo, «simbolo della libera associazione», la regina Elisabetta II d’Inghilterra. L’organizzazione è diretta operativamente dal Segretariato del Commonwealth, che ha sede a Londra, nella Marlborough House, ex palazzo reale graziosamente concesso da Elisabetta. Ha persino i suoi giochi, quelli del Commonwealth, appunto, alternativa meno nota alle Olimpiadi ed eredi diretti dei British Empire Games: si tengono ogni quattro anni e sono un grande club riservato agli ex sudditi: la prossima edizione si terrà a Delhi dal 3 al 14 ottobre. Monarchie e repubbliche Il Commonwealth è, giuridicamente, una monarchia costituzionale federale dove il capo dello Stato è, per l’appunto, la Regina d’Inghilterra Elisabetta II, rappresentata in loco da un governatore generale. L’Australia fa parte dei cosiddetti 16 reami del Commonwealth, insieme alla Nuova Zelanda, al Canada, ovviamente al Regno Unito e a una serie di paradisi turistici frequentati con entusiasmo dagli abitanti della gelida Albione: Antigua e Barbuda, Bahamas, Barbados, Belize, Giamaica, Grenada, Isole Salomone, Papua Nuova Guinea, Saint Kitts e Nevis, Saint Vincent e Grenadine, Santa Lucia e Tuvalu, che con una superficie di appena 26 km quadrati è il terzo Paese meno popolato al mondo, dopo Città del Vaticano e Nauru, che è pure parte del Commonwealth ma a titolo di repubblica. Curioso è il destino delle Isole Figi, da anni teatro di una serie di colpi e controcolpi di Stato. Nel 1970, l’anno dell’indipendenza, sono subito entrate nel Commonwealth, ne sono uscite nel 1987 per esservi riammesse dieci anni dopo. Dal 1° settembre 2009 sono sospese per «evidenti difetti di democrazia» del regime militare che le governa. Del «bene comune» fanno parte anche sei nazioni che aggiungono alla regina Elisabetta un monarca in proprio: Brunei, Lesotho, Malesia, Samoa, Swaziland e Tonga. Come si concili con l’antica tradizione democratica anglosassone e con gli obiettivi del club una monarchia assoluta islamica dove il Sultano del Brunei detiene tutti i poteri, esecutivi, legislativi, giudiziari e militari diretti e dove non esiste costituzione, è domanda forse da non porsi. Aspettando lo Zimbabwe Il quadro diventa ancora più variegato passando alle 31 repubbliche che, malgrado l’abbiano rifiutata in proprio, rendono omaggio alla monarchia inglese: dal Bangladesh allo Zambia. Lo Zimbabwe martirizzato da Mugabe ha divorziato dal Commonwealth nel 2003 sull’onda dello sdegno per il colonialismo e per le sanzioni contro il suo regime, ma potrebbe esservi riammesso entro l’anno prossimo, se si comporta bene. Sono in corso trattative. Il Commonwealth è un club di declinante pur se ancora cospicua influenza economica, ma non è un club di amici desiderosi di ricordare i bei vecchi tempi. Benché il Regno Unito abbia cercato di dissipare il clima imperialista passando dalle colonie ai Dominions e da questi alla libera unione degli Stati e sia per statuto impegnato a non esercitare alcuna influenza negli affari interni dei Paesi membri, il «Commonwealth dei bianchi», espressione amata da Mugabe, è spesso sospettato di avere interessi diversi e in conflitto con gli esponenti «non bianchi», in particolare quelli africani. Di certo è una formula di successo tra i Paesi ex colonialisti che la Francia, con l’Organisation Internationale de la Francophonie, la Spagna, con l’Organización de Estados Iberoamericanos e il Portogallo con la Comunidade dos Paìses de Lingua Portuguesa, hanno cercato di imitare con alterne fortune.