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 2010  agosto 25 Mercoledì calendario

LA UE MALATA DI IMMOBILISMO

La notizia del sorpasso del Giappone da parte della Cina in termini di Pil conferma una tendenza storica ampiamente anticipata dagli esperti. In realtà, il Pil della Cina è già maggiore di quello del Giappone di almeno mille miliardi di dollari, se valutato a parità di potere di acquisto. In base a tale misura, il prodotto cinese rappresenta oggi circa l’11% del prodotto mondiale, contro il 22% degli Usa ed il 21% dell’Europa dei 15. Alcuni mesi fa, lo storico dell’economia Robert Fogel ha proposto alcune riflessioni sulle prospettive di crescita delle aree più sviluppate del pianeta per i prossimi trent’anni, che dovrebbero destare qualche preoccupazione tra i leader europei. Nel 2040 la Cina dovrebbe diventare di gran lunga il primo paese del mondo in termini di Pil valutato a parità di potere d’acquisto, con una quota pari al 40% del prodotto mondiale, mentre le quote di Usa ed Europa dei 15 scenderebbero, rispettivamente, al 14 ed al 5%. Si consideri che, secondo tali previsioni, i cittadini cinesi avrebbero, nel 2040, un reddito pro-capite doppio rispetto ai cittadini europei (ma ancora inferiore a quello dei cittadini americani).
Le previsioni di Fogel sono certamente basate su estrapolazioni ed ipotesi discutibili, ma non sono affatto infondate. I suoi dati, in sostanza, prevedono che la Cina continui a mantenere, fino al 2040, un trend spettacolare (simile a quello già mostrato negli ultimi vent’anni), che gli Usa riescano a tenere "faticosamente" il passo e che l’Europa subisca un forte ridimensionamento rispetto alle altre economie del pianeta. Le buone prospettive della Cina si devono al fatto che i processi di dislocazione del lavoro dall’agricoltura al manufatturiero ed ai servizi continueranno ancora a lungo (almeno per la prossima generazione) e che l’aumento della scolarizzazione indurrà forti aumenti di produttività. Ad esempio, si prevede che la percentuale di studenti iscritti all’università crescerà del 50% almeno nel corso dei prossimi trent’anni. L’impatto di questo progresso sulla produttività può essere facilmente apprezzato se si considera che, mediamente, un lavoratore con diploma universitario è circa 3 volte più produttivo di un lavoratore con diploma di scuola primaria.
Il forte ridimensionamento dell’Europa si deve principalmente alle tendenze demografiche e ad una scarsa dinamica dell’innovazione tecnologica. Secondo le previsioni delle Nazioni Unite, la forza lavoro europea è destinata a ridursi e l’età media ad aumentare in misura sostanziale. Tra il 2000 ed il 2040 la percentuale media di ultra-sessanticenquenni in Francia, Germania, Italia, Spagna e Regno Unito passerà dal 16 al 28%, ed il tasso di dipendenza medio (in questi stessi paesi e nello stesso arco temporale) aumenterà di circa il 50%. Fogel coniuga questi dati ad una previsione di aumento medio della produttività del lavoro nei 5 paesi europei pari all’1,8% annuo, per concludere che il Pil dell’Europa a 15 non supererà l’1,2% annuo nei prossimi trent’anni. Troppo poco per tenere il passo con i concorrenti.
Le previsioni di Fogel possono essere criticate da vari punti di vista, sia per quanto riguarda le prospettive cinesi che quelle europee. Lasciando da parte le incertezze politiche, che possono minacciare la stabilità della Cina, ma anche la solidità del modello di integrazione commerciale europeo, bisogna osservare che anche l’Europa ha buone prospettive di miglioramento economico. È evidente che un’area economica matura come quella europea non può esibire tassi di crescita paragonabili a quelli di un paese in via di sviluppo, come la Cina. I guadagni di produttività che, nel nostro continente, possono derivare da una riallocazione dei fattori produttivi e da un aumento della scolarizzazione sono limitati. Tuttavia, l’Europa sottoutilizza ampiamente il lavoro dei giovani e non riesce a dare impulso alle aree economicamente svantaggite del continente. Un contributo non trascurabile alla crescita europea potrebbe venire da un aumento degli investimenti diretti e della partecipazione al lavoro, soprattutto nel Sud Europa. In Francia e Italia un giovane su quattro è disoccupato, mentre in Spagna il dato sale al 40%. Ma queste prospettive possono essere realizzate solo accettando una maggiore flessibilità delle regole contrattuali, rimuovendo le barriere alle ristrutturazioni aziendali e cambiando drasticamente i criteri di perequazione del reddito ed i sistemi di compensazione adottati dall’Unone europea. In particolare, bisogna riconoscere che i trasferimenti incondizionati di reddito e la crescita dell’impiego pubblico può scoraggiare l’offerta di lavoro e disincentivare l’attività imprenditoriale.
I dati economici molto positivi esibiti quest’anno dalla Germania sono un segnale in controtendenza per l’Europa. Ma, probabilmente, le stesse riforme del welfare, gli accordi contrattuali ed i processi di ristrutturazione che, in quel paese, hanno reso possibile una forte ripresa del Pil e dell’occupazione, avrebbero avuto effetti molto più significativi se fossero avvenuti nelle aree meno ricche del nostro continente. Le difficoltà della Fiat a Pomigliano sono un segnale su cui conviene riflettere seriamente.