Nello Scavo, Avvenire 25/8/2010, 25 agosto 2010
REPORTAGE DA OSLO
Attraverso le grandi vetrate trasparenti di un edificio basso e squadrato, sferzate dai venti freddi del fiordo di Oslo, alcune giovani donne con il passeggino osservano il lavoro del più ricco ed esigente investitore europeo: 330 miliardi di euro in 8.300 società quotate. Abbastanza per potersi permettere di sbarazzarsi di una cinquantina di partecipazioni in gruppi accusati di condotte «gravemente immorali», come il finanziamento di regimi dispotici, la produzione di armi o lo sfruttamento del lavoro minorile.
Non è un magnate privato, ma il ’Norge pension fund’, gruzzolo statale che appartiene a ciascuno dei 4,8 milioni di cittadini norvegesi (70mila euro a testa) e che ogni giorno si gonfia grazie all’export di petrolio. Stavolta il merito non è di qualche intrepido manager d’alta finanza. È opera di un filosofo, quell’Enrik Syse a cui i sudditi della corona norvegese si sono affidati senza mugugnare.
Il professor Syse fu chiamato otto anni fa ad amministrare il fondo che oggi ha in cassaforte l’1,8 per cento delle azioni quotate in Europa e l’1 per cento di quelle di tutto il mondo. Syse mise a punto un’inedita gestione delle risorse energetiche, amministrate secondo principi di «finanza etica» e «amministrazione responsabile».
Wilhelm Mohn, uomo chiave del Dipartimento gestione patrimoniale del ministero delle Finanze, spiega com’è stato possibile puntare alla redditività senza sporcarsi la coscienza. «L’obiettivo – riassume – è quello di massimizzare i rendimenti a lungo termine entro limiti di rischio fissati dal ministero, in coerenza con le linee guida del Fondo per gli investimenti e del consiglio etico». Sì, perché dopo la strada tracciata da Syse, niente si fa nella Norge Bank senza il parere pressoché vincolante dei ’saggi’, presieduti da una manager finanziaria specializzata in Diritti umani e assistita da una biologa, una studiosa di ecologia delle acque dolci, un docente di diritto e un filosofo dell’economia.
Per raggiungere risultati apprezzabili, Mohn indica la porta stretta «dello sviluppo sostenibile in termini economici, ambientali e sociali». È ciò che Oslo chiede ai partner esteri. Non prima di aver dato il buon esempio. A cominciare dalle ’tasse verdi’ con cui finanziare i costi di depurazione e bonifica delle aree produttive. Lo sviluppo industriale del Paese che fu dei vichinghi è stato accompagnato da una specie di ossessione ambientalista. L’emissione di sostanze nocive nell’ultimo decennio è diminuita del 90 per cento e quella dei gas complici dell’effetto serra di circa il 10.
A buon titolo la Norge Bank, braccio indipendente delle banca centrale, si è permessa di sbarazzarsi in questi anni delle partecipazioni in 49 società responsabili di «condotte gravemente immorali». Tra esse anche l’italiana Finmeccanica, accusata nel 2005 di aver contribuito alla realizzazione di un nuovo missile nucleare. Il gruppo ha sempre negato, ma i banchieri scandinavi restano irremovibili. Stessa sorte per Hanwha Corporation (Corea del Sud), Serco Group Plc (Gran Bretagna) e GenCorp Inc (Stati Uniti) che, secondo il Comitato etico, producevano bombe a grappolo, munizioni bandite proprio dal trattato di Oslo firmato nel 2008 ed entrato in vigore il primo agosto di quest’anno. Dalla prima concessione per l’estrazione del petrolio nel Mare del Nord sono trascorsi 45 anni. Una rivoluzione che ha trasformato una nazione di rassegnati pescatori di merluzzi in una sorta di emirato lappone. Oggi l’oro nero rappresenta il 26 per cento del prodotto interno lordo. Tasse, costi delle licenze e percentuali sulle esportazioni degli idrocarburi vengono iniettati in un unico salvadanaio, un fondo pensionistico che si alimenta esclusivamente di questi proventi, investiti interamente in mercati azionari e obbligazionari stranieri, così da mettere la ricchezza accumulata al riparo dall’inflazione interna. A queste latitudini, però, la gente sa che alle allegre estati illuminate dalla magia del sole di mezzanotte, seguono interminabili inverni quasi completamente al buio. «Come faremo quando il petrolio finirà?», si sono chiesti davanti a tanta inattesa ricchezza i saggi discendenti dei conquistatori vichinghi. «Semplicemente, abbiamo deciso di fare come con lo stoccafisso». La logica di Anne Lill è condivisa dalla maggioranza dei suoi connazionali: «Da secoli essicchiamo il pesce per conservarlo a lungo e consumarlo quando ci serve». Trent’anni, laureata, un lavoro da dirigente e due figli, Anne è il prototipo della moderna donna scandinava. Merito di un welfare che dovrebbe essere esportato almeno quanto il petrolio. Oslo sarà anche tra le città meno economiche del mondo (il costo della vita supera del 23 per cento quello di New York), ma alle puerpere è concesso un periodo di 42 settimane di maternità retribuito al 100 per cento (10 settimane sono concesse ai papà) e altre 12 all’80 per cento, non a caso il tasso di fertilità (1,9 figli per donna) è il più alto di tutto l’Occidente. «Anziché dilapidare le rendite petrolifere sperando di arricchirci e basta, abbiamo scelto – spiega Ann Lill – di risparmiare, investire, accantonare una parte dei profitti e reinvestire l’altra». È meno semplice di quanto non sembri. «Parliamo di una montagna di soldi da gestire per conto dei nostri figli, nipoti e pronipoti», va ripetendo da anni il filosofo Enrik Syse. A suo modo anch’egli è un simbolo della diversità norvegese. All’inizio di questo decennio il ministero delle Finanze chiese a Syse di ammodernare la gestione del Fondo statale, nominandolo a capo del comitato di gestione del Norge Bank pension fund. Insomma, un intellettuale digiuno di strategie finanziarie al posto di un assennato banchiere. Il patrimonio è a dodici zeri: ben oltre duemila miliardi di corone. In un Paese senza debito pubblico vuol dire che l’astronomica cifra di oltre 330miliardi di euro corrisponde a quasi 70mila euro per abitante. In largo anticipo sulle prime avvisaglie della crisi economica globale, Syse cominciò con il fissare un po’ di punti fermi. «Da una parte ci sono i principi secondo i quali non si dovrebbe investire in alcuni tipi di società per non diventare complici negli abusi dei diritti umani o di azioni palesemente antietiche». Ascoltandolo a qualche manager rampante sarà venuto un esaurimento nervoso. «Il problema fondamentale è la trasparenza», insiste Anne Kvam, avvocato esperto di diritti umani e a capo della gestione operativa del Fondo petrolifero di Oslo. Il matrimonio tra cuore e portafoglio riserva talvolta stagioni turbolenti. Nel 2008 il Fondo pensioni riportò perdite per 633 miliardi di corone, pari a 71,5 miliardi di euro. Il risultato peggiore di sempre. Nonostante questo, proprio in quell’anno alla Norge Bank vollero liberarsi di due società e l’anno successivo di altre 20, tra cui grandi e remunerative multinazionali del tabacco come Philp Morris. «La nostra non è una visione a breve o brevissimo termine – chiarisce Kvam –, perciò scegliamo di impegnare il denaro in progetti di lungo periodo». Ed è grazie a questa visione che è possibile intervenire per limitare i rischi finanziari, «allo stesso tempo promuovendo il rispetto e lo sviluppo della sensibilità etica».