Daniele Bellasio, Il Sole 24 Ore 25/8/2010;, 25 agosto 2010
PECHINO E L’INEVITABILE LUNGA MARCIA DELLE RIFORME
«Dobbiamo risolvere il problema dell’eccessiva concentrazione di potere e creare le condizioni per permettere al popolo di criticare e controllare il governo». Non sono le parole di un intellettuale che si batte per i diritti civili in un paese autoritario, sono le parole del leader più popolare in Cina, il primo ad arrivare nei luoghi devastati da inondazioni o in genere da tragedie, sono le parole dette dal primo ministro Wen Jabao domenica scorsa. E "il primo ministro del popolo", così lo chiamano, non ha detto quelle parole in una qualunque occasione, ma alle celebrazioni del 30?anniversario della creazione, da parte di Deng Xiao Ping, delle Zone economiche speciali. E non in una città qualunque, ma a Shenzhen, da dove partì il grande balzo della Cina finoal secondo posto al mondo come potenza economica.
La ragione addotta da Wen Jabao per auspicare un’apertura del regime è infatti tutt’altro che di principio o ideale: «Se nessuna riforma del sistema politico sarà garantita, i risultati delle riforme economiche saranno annullati».
Certo, Wen Jabao è un riformatore solitario e per ora soprattutto a parole, c’è chi dice che sia solo il volto buono di un regime senza spiragli. Ma intanto quelle parole sollevano un interrogativo reale: si può essere la seconda potenza economica delmondo e il 75?paese, un gradino sotto il Venezuela e uno sopra il Kazakistan, nella classifica dell’indice di prosperità del Legatum Institute, autorevole organizzazione indipendente universalmente riconosciuta come tale? Nel lungo periodo no e per almeno tre ragioni.
La prima riguarda la nascita, come conseguenza dello sviluppo economico e delle aperture ai commerci e agli spostamenti con l’estero, di una classe media sempre più consapevole che il benessere non è mai abbastanza e non è soltanto l’abbondanza nelle mie tasche, ma anche la soddisfazione delle mie aspirazioni. Per questo il consumatore cinese prima o poi vorrà anche essere un elettore. Poi è facile spostare d’imperio centinaia di migliaia di persone dalla disperata campagna alla speranzosa città per produrre le macchine di un costruttore occidentale o per organizzare le Olimpiadi. Ben più difficile è convincerealcune di quelle stesse centinaia di migliaia di persone a tornare nelle campagne, dove si guadagna in media tre volte e mezzo in meno che nelle città (il gap più elevato al mondo), se un rallentamento rende indispensabile una ristrutturazione con licenziamenti o se i giochi olimpici sono finiti. I primi movimenti dei lavoratori si vedono. Fermarli senza dar loro diritto di parola e di rapprentanza con i sindacati sarà sempre più difficile. Anche perché la seconda ragione che fa prevedere una qualche forma di democratizzazione ha a che fare con il gioco di vasi comunicanti che solo una democrazia riesce a contenere nel medio o lungo periodo: sono i vasi comunicanti delle disuguaglianze. Più la Cina cresce più aumentano le disuguaglianze tra città e campagne, tra centro e periferia, tra ricchi e poveri, tra favoriti del partito e no. Senza sbocco politico la forza della rabbia sociale diventa incontenibile, esonda: con la rappresentanza e la speranza di cambiare le cose si garantisce quella stabilità che ha anche un ovvio valore economico.
La terza ragione è finanziaria. Nel senso che la tanto bistrattata finanza, colpevole secondo i più della corrente crisi, ha delle ragioni che il cuore di un regime autoritario non può capire. Per continuare a crescere servono gli investimenti e se gli investitori arrivano poi hanno bisogno di ragionevoli certezze sul futuro dei loro soldi spesi. La Cina è il secondo paese al mondo come recettore di investimenti diretti.
Se le grandi banche cinesi vanno in Borsa vuol dire che si aprono. Se l’80 per cento dell’economia un tempo statale è stata in un modo o nell’altro privatizzato vuol dire che nascono soggetti autonomi e l’autonomia si espande in libertà e solo se c’è libertà. Prima o poi Pechino sentirà il bisogno, lo sta già sentendo e alcune riforme sono avviate, di adeguare il proprio sistema finanziario al suo rango di seconda potenza economica mondiale.
Sono il consumatore e il lavoratore cinese alleati con l’investitore straniero a spingere la Cina sulla via della democrazia. Come ha scritto Yang Yao, direttore del China Center for Economic Research all’Università di Pechino, su Foreign Affairs di febbraio: «Non c’è alternativa a una sempre maggiore democratizzazione se il Partito comunista cinese vuole incoraggiare la crescita economica e mantenere la stabilità sociale».