Marina Forti, il manifesto 22/8/2010, 22 agosto 2010
L’ECONOMIA DELL’IRAN SOTTO LE SANZIONI
Le sanzioni internazionali cominciano a pesare in modo visibile sull’economia dell’Iran, e un paio di notizie di questo agosto lo confermano. La prima è un annuncio ufficiale: l’Iran ha sospeso due dei tre grandi progetti di produzione di gas liquefatto (Lng) del paese, rinunciando per ora all’ambizione di diventare un grande esportatore di questo prodotto. Lo riferivano i media iraniani il 12 agosto; i dirigenti dell’azienda petrolifera di stato non spiegano la repentina svolta, dicono solo che l’Iran punterà invece a costruire nuovi gasdotti (ma esportare gas liquefatto con le navi cisterna è più redditizio e offre maggiori opportunità che esportare il gas naturale via gasdotto).
Seconda notizia: in luglio l’Iran ha importato circa metà del volume di carburante che aveva importato in maggio, e l’ha dovuto pagare un 25% di «premio» extra rispetto ai prezzi di mercato. Lo dice il rapporto mensile dell’Agenzia internazionale per l’energia (Aie), che non ha dubbi: dice che è un effetto delle sanzioni. Infatti le maggiori società che commerciano prodotti petroliferi (come Trafigura, Glencore o Vitol), insieme alla Total, hanno smesso di vendere benzina all’Iran già da marzo. Il loro posto è stato preso da società cinesi e mediorientali; in agosto anche la russa Lukoil ha venduto due cargo di carburante all’Iran (con cui aveva sospeso le transazioni in marzo), e la compagnia turca Tupras si è detta disponibile a fare altrettanto. Ma la difficoltà resta.
Le sanzioni internazionali «sono più efficaci di quanto molti si aspettassero», fa notare (sul suo blog) Gary Sick, già membro del Consiglio di sicurezza nazionale Usa, consigliere della Casa Bianca sull’Iran durante la Rivoluzione, oggi studioso al Middle East Institute e uno degli osservatori più attendibili sull’Iran contemporaneo. Questo non significa che costringeranno il regime iraniano a rinunciare al programma atomico, avverte Sick: le sanzioni «non hanno mai indotto nessun regime ad abbandonare progetti che reputano centrali per la propria sicurezza, o sopravvivenza, o immagine». Anzi, sono «un regalo per il regime», diceva l’ex candidato presidenziale Mehdi Karrubi la settimana scorsa in un’intervista al quotidiano britannico The Guardian: le sanzioni rafforzano il presidente Ahmadi Nejad, cui «hanno dato una scusa per reprimere l’opposizione incolpandola dell’instabilità».
Una ragnatela di limitazioni
Le sanzioni non indurranno Tehran a rinunciare ad arricchire uranio, ma hanno ormai costruito una rete di limitazioni finanziarie e commerciali attorno all’Iran. Le risoluzioni del Consiglio di sicurezza dell’Onu hanno decretato ormai quattro pacchetti di sanzioni, mirate però solo a banche, aziende o individui direttamente collegati a programmi militari e di arricchimento dell’uranio (l’aspetto più insidioso delle sanzioni Onu è che danno mandato ai paesi di ispezionare i cargo diretti all’Iran per intercettare eventuali merci bandite).
Poi però ci sono le sanzioni unilaterali decretate dagli Stati uniti, che già da anni bloccano le transazioni con le maggiori banche iraniane e ora colpiscono l’industria energetica, petrolio e gas, cioè la fonte dell’80% dell’export dell’Iran. Washington applica le sue sanzioni anche a imprese e banche di paesi terzi: se investono o vendono benzina all’Iran hanno chiuso con il mercato Usa. Sullo stesso modello, in luglio anche l’Unione europea ha decretato sanzioni unilaterali, mirate agli investimenti nel settore energetico e alle principali banche iraniane.
Fuga da South Pars
L’industria degli idrocarburi è particolarmente vulnerabile. Primo, perché le sanzioni hanno fatto mancare capitali e tecnologie. L’Iran oggi produce circa 3,5 milioni di barili al giorno, un calo drastico rispetto ai 4,1 milioni di barili del 2005-2006 (e ancor più drastico rispetto ai 5,9 milioni di barili che si prefiggevano i piani di sviluppo). L’Iran produce al di sotto della sua potenzialità, anche se l’aumento del prezzo del greggio un paio d’anni fa ha permesso di tamponare il danno economico.
A detta degli esperti, l’Iran ha bisogno di investire 50 miliardi di dollari nei prossimi due anni per mantenere il suo posto tra i paesi produttori, e difficilmente ci riuscirà senza partner stranieri: sia per la quantità dei capitali richiesti, sia perché sono le grandi compagnie petrolifere straniere ad avere le tecnologie avanzate.
Il caso di South Pars è indicativo. E’ il maggiore giacimento di gas naturale al mondo, 28 miliardi di metricubi di gas nel sottosuolo del Golfo persico, in Iran meridionale. Tehran è riuscita finora a sviluppare solo 5 dei 24 settori («fasi») in cui è suddiviso, tirandone fuori circa 125 milioni di metricubi al giorno (e rischia di farsi sopravanzare dal Qatar, che condivide lo stesso giacimento sul suo lato del Golfo). La corrispondente del Financial Times, che ha visitato il mese scorso le installazioni di South Pars, descrive impianti dove lavorano 16mila addetti, contro i circa 100mila degli anni scorsi.
A partire dal gennaio 2007 si sono ritirati da South Pars, in successione, Royal Dutch Shell, la spagnola Repsol, la francese Total, l’austriaca Omv. In parte per evitare il rischio di sanzioni (annunciate o attuali); in parte anche perché l’Iran ha offerto contratti poco attraenti e molte aziende che sono entrate in trattative hanno poi rinunciato. Si sono fatte avanti invece la malaysiana Sks e le cinesi Sinopec e Cnpc: ma le uniche fasi del progetto oggi in produzione sono quelle sviluppate in precedenza da StatoilHydro (norvegese) e Total.
Di recente anche una compagnia iraniana si è ritirata da South Pars: Khatam al-Anbiya, la compagnia di ingegneria delle Guardie della Rivoluzione, che ha dichiarato di ritirarsi per non danneggiare «gli interessi nazionali»: forse perché le ultime sanzioni Onu la mettono tra le aziende i cui assets internazionali possono essere congelati. Il suo posto è stato preso da un’altra azienda iraniana, Iran Shipbuilding and Offshore Industries Complex. Tutte le aziende iraniane che lavorano a South Pars dipendono dai finanziamenti dello stato, e per quest’anno il parlamento iraniano ha approvato una previsione di spesa di 8 miliardi di dollari per sviluppare gas e petrolio.
E la domanda aumenta
Mentre la produzione cala, la domanda interna aumenta. Gli iraniani scialacquano energia, anche perché le sovvenzioni statali garantiscono i prezzi più stracciati al mondo. Di recente il ministro del petrolio Masoud Mir-Kazemi ha affermato che il paese produce 44,5 milioni di litri al giorno di carburanti e ne importa altri 20 milioni, ma sta cercando di diminuire la sua dipendenza: il ministro dice che l’Iran sarebbe in grado, se necessario, di sostituire circa tre quarti del carburante che importa.
Il governo iraniano ha cercato anche di mettere un freno al consumo razionando la benzina a prezzo sovvenzionato: esaurita la propria quota, i cittadini devono comprarla a prezzo «di mercato», che però resta molto basso. (La politica del presidente Ahmadi Nejad di eliminare le sovvenzioni sui beni essenziali, e di introdurre l’Iva, facendo insorgere il bazar, piacerebbero molto al Fondo monetario internazionale).
Infine ci sono le sanzioni al sistema bancario. Ormai le principali banche internazionali rifiutano di avere transazioni con la Repubblica islamica. Questo si ripercuote sul commercio, visto che le lettere di credito delle maggiori banche iraniane non sono più accettate. Per aggirare il blocco si può ricorrere a trasferimenti indiretti, o al havala (un sistema di trasferimento di fondi fuori dal circuito bancario ufficiale): ma questo allunga i tempi e ha fatto salire in modo considerevole il costo di ogni transazione estera per gli iraniani. Le aziende che importano (anche merci in sé non colpite da sanzioni, dai beni di consumo ai pezzi di ricambio per comuni macchinario, ai medicinali) sono sempre più in difficoltà. L’economista Djamshid Assadi, dell’Università di Lione, stima che le sanzioni abbiamo aumentato del 20% il costo delle importazioni in Iran.
Non che ci sia penuria, nei negozi delle grandi città manchino le merci importate non mancano. Intanto però gli investimenti diretti stranieri sono in calo già da anni: nel 2008 si sono attestati sul miliardo e mezzo di dollari, stima il Financial times, contro un picco di 3,7 miliardi nel 2002.
L’effetto di tutto questo è che diverse industrie soffrono, fabbriche chiudono, imprese licenziano. Il ministero del lavoro di Tehran ha annunciato in agosto che il tasso di disoccupazione è salito al 14,6% (era l’11% la primavera scorsa), riferiva l’agenzia di stampa Isna. Molti sono convinti che la disoccupazione risulterebbe ben più alta se si includessero nel conto i giovani in cerca di primo impiego o le donne che vorrebbero ritrovarlo. Insieme ai prezzi in ascesa e alle ricorrenti notizie di proteste di lavoratori, ecco i segni di difficoltà.