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 2010  agosto 24 Martedì calendario

SEMENYA, LA CORSA E QUEGLI SGUARDI «LE VOCI SU DI ME? UNA PROVA DI DIO» —

Se l’anima non ha sesso, e non ce l’ha, se quella del talento più sfolgorante dell’atletica mondiale (insieme a Usain Bolt) ha l’unica colpa di essere indecisa, se la vera essenza non ha nulla a che vedere con i mocassini numero 46, con i pettorali che premono sotto una polo attillata in totale assenza di seno, con un’energia complessiva, postura-voce-gesti, oggettivamente da uomo, Caster Semenya è, senza ironia, una bella donna.
Lo è, senza sapere di esserlo. Perché nel villaggio di case di fango nel quale è nata, Ga-Masehlong, vicino a Polokwane, Sudafrica, giocava a pallone con i maschi. Perché nella strada polverosa dove ha cominciato a correre, Fairlie, provincia sperduta del Limpopo, essere femmina non era certo un passaporto per la felicità. Perché i casi di ermafroditismo in Africa, per ragioni etniche e culturali, sono più diffusi che in Occidente: il quotidiano australiano Daily Telegraph ha scritto che Caster non ha ovaie, avrebbe testicoli interni e questo spiegherebbe gli impressionanti livelli di testosterone rilevati al Mondiale di Berlino 2009, dove vinse l’oro negli 800 dando scandalo. Lei non ha mai confermato né smentito.
Incontrarla è un’esperienza. Un esercizio sottile di non-giudizio, apertura di mente e di sentimenti. Chi siamo, noi, per giudicarla? A fine giugno la Federatletica internazionale (Iaaf) le ha tolto il bando, 11 mesi trascorsi a capire se Caster sia uomo o donna. Psicologi, endocrinologi, ginecologi: donna, hanno deciso. È tornata a correre, sempre più veloce, risollevando lo sdegno delle rivali. Oggi è sorridente e felice: domenica, qui a Berlino, ha vinto un 800 a livello internazionale. Questa è la sua prima intervista.
Uomo. Donna. Ermafrodito. Chi è Caster Semenya?
«Sono un essere umano, una persona. Nient’altro».
Cosa le hanno fatto, Caster, negli ultimi undici mesi? «Questo lo deve chiedere alla Iaaf». Lo chiedo a lei. «Della Iaaf io non parlo. I miei genitori mi hanno insegnato ad abbassare la testa di fronte a chi è più grande di me».
Qui a Berlino le rivali si sono lamentate di nuovo: non è giusto che la Semenya corra con noi, hanno detto.
«Perché quando Bolt vince i 100 metri stracciando gli altri con quella superiorità nessuno protesta?». Già, perché? «Forse perché io ho le spalle più larghe, e posso reggere tutto... (ride)». Proprio tutto? «Nessuno sa quanto duramente mi alleno, o i sacrifici che ho fatto per arrivare all’oro mondiale. Nessuno sa, veramente, chi sono».
Proviamo a capirlo. Cosa la fa ridere?
«Gli scherzi. Ne faccio un sacco, soprattutto al mio coach, Michael Seme detto Sponge». Ne racconti uno. «Quando sono stanca, corro con il sedere in fuori e Sponge diventa matto. A volte lo faccio apposta per vedere che faccia fa!». Cos’è la corsa, per lei? «Intrattenimento. Correre mi dà
gioia e ne dà al pubblico. Le avversarie mi danno l’adrenalina della competizione. Ma io avrei voluto fare la calciatrice, da bambina ero brava».
Brava quanto?
«Correvo veloce, infatti quando il mio coach mi ha vista mi ha portata subito al campo di atletica».
In che ruolo giocava?
«Ho cominciato come attaccante, segnavo parecchio. Poi ho provato tutti i ruoli: per sei anni sono stata in difesa. Ho fatto anche il portiere, una partita sola però».
Il 9 settembre correrà all’Arena, alla Notturna di Milano. Una buona occasione per andare a San Siro.
«I calciatori italiani non sono tra i miei favoriti. A me piacciono Leo Messi e Carlos Tevez, i miei modelli». Crede a tutto ciò che le dice il coach? «Sì. Mi spiega bene le cose e non ha fretta . A Lappeenranta ho corso in 2’04’’, a Lapinlahti in 2’02’’, qui a Berlino in 1’59’’. La progressione è continua: lui l’ha deciso e io ho ubbidito. Sa in che direzione andare, ha un progetto per me: ecco perché mi fido ciecamente. Faccio tutto quello che mi dice. Sponge pensa che la mia forza sia la testa. Sponge è speciale. La prima volta che mi ha visto correre, pochi giorni prima del Mondiale juniores, mi ha detto: vieni con me e diventerai una campionessa del mondo. Aveva ragione».
Ha detto anche che batterà il record della Kratochvilova (1’53’’28) che dura da 27 anni?
«Se lavoro duro, se continuiamo a fidarci l’una dell’altro, perché non dovrei riuscirci?».
Il mondo dell’atletica lo considera solo una questione di tempo.
«Prima di fare il record devo vincere molte gare. Mi servono esperienza e forza». Da bambina aveva idoli? «Una calciatrice sudafricana». E oggi? «Maria Mutola, oro negli 800 a Sydney 2000. Ci siamo parlate una volta al telefono. È stata molto affettuosa». Ascolta musica? Mi piace, ma molto dipende dai messaggi che vuole trasmettere».
Il cantante preferito? «James Blunt». L’ultimo cd che ha comprato? «Non dirò bugie: non compro la musica, la copio». Un attore. «Bruce Willis. Muscoli e azione, la combinazione giusta». Legge? «Ogni tanto. Romanzi o poesie». Scrive? «Per niente. Ma un giorno, a fine carriera, scriverò un libro in cui racconterò tutto». Le piace fare shopping? «Sì. Compro jeans e scarpe. So che Milano è un buon posto per gli acquisti».
Ha mai provato un paio di scarpe col tacco, così, per curiosità? «Una volta sola. Erano altissimi». Ha mai incontrato Nelson Mandela? «Dopo l’oro mondiale, l’anno scorso. È stato emozionante conoscere Madiba, mi ha detto di non arrendermi, di essere forte, di continuare a correre. Mi ha dato ancor più motivazione per non farmi abbattere dalle polemiche, ecco».
Il nome di Jesse Owens significa qualcosa per lei? «Chi?». Giochi ’36. Berlino. Afroamericano. Quattro ori davanti a Hitler.
«Mmmmmm, ne ho sentito parlare, sì. Doveva essere un tipo speciale, oppure speciale è l’Olympiastadion perché anche a me, là dentro, sono successe cose pazzesche». Le piace essere famosa? «Non molto. Non mi piace quando mi fissano con curiosità, allora cerco di comportarmi normalmente, di fare cose banali. Però non posso fare nulla per evitarlo. Sono abituata a gente che mi scruta da quando ero piccola, ormai non mi fa più effetto». È vero che gira con le bodyguard? «No. Mai avute. E non le vorrei mai». I prossimi obiettivi nell’atletica? «Vincere l’oro olimpico a Londra 2012. E fare il record del mondo». Il suo sogno di felicità. «Avere una famiglia e vivere serena. Non m’importa di sposarmi, non è questo il punto. Penso ai figli, penso a qualcuno che mi voglia bene per quello che sono, in semplicità».
Crede nel destino o pensa che le cose succedano per caso?
«Niente succede per caso. C’è sempre una ragione. Dio è vivo: io sono nata per correre ma è lui che mi fa andare sempre più veloce. Dentro di me abita lo spirito divino».
Come si spiega lo scandalo, il bando e ciò che le è successo dall’agosto 2009 a oggi?
«Tutto succede per una ragione. Forse dovevo rendermi conto quanto sia difficile vivere di sport, forse avevo bisogno di una sfida ancora più grande degli 800 metri, forse non credevo in Dio abbastanza e lui ha voluto mettermi alla prova. Ho pregato. Ho creduto in lui ancora di più e, piano piano, le cose stanno tornando alla normalità». Questa è normalità? «Correre, per me, è lo stato naturale. E l’unica cosa che conta».
Gaia Piccardi