Sergio Rizzo-Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 21/08/2010, 21 agosto 2010
I SOGNI ITALIANI DI «NICO» MORTI NELLA PALESTRO ARABA
Domenico Bassetti ebbe un destino davvero tragico e strano. Sfuggito alla morte nell’ inferno della battaglia di Palestro dove era accorso come volontario in nome dell’ Italia, finì per essere ricordato come un eroe francese di una sperduta Palestro algerina. Con tanto di targa: «Alla memoria gloriosa dei ragazzi di Palestro, morti per la Francia». Non esiste più, quella targa che prima d’ essere demolita fu ripresa in un vecchio documentario della tv parigina. E non esiste più il monumento che i francesi eressero al ricordo del massacro, dove «Nico» con la baionetta in pugno tentava l’ ultima difesa mentre due bimbi terrorizzati gli si aggrappavano alle gambe. E non esiste più sulle mappe quella Palestro maghrebina fondata a 77 chilometri da Algeri sulla strada che porta a Costantina. Tutto cancellato dagli arabi dopo l’ indipendenza del 1962. Eppure mezzo secolo dopo, sulla carta geografica più moderna del mondo cioè Google-map, quella Palestro sul fiume Oued Isser tra toponimi impronunciabili come Lakhdaria o Abd el Djebar, c’ è sorprendentemente ancora. La prova di come la storia non possa essere del tutto cancellata dai vincitori. Ma vale la pena di raccontarla dall’ inizio. Siamo nel 1859. Allo scoppio della II Guerra d’ Indipendenza Domenico non ci pensa due volte e corre a offrirsi volontario. Vive a Lasino, un borgo della Valle del Sarca, nel «Tirolo italiano». Sa che gli austriaci lo considereranno un traditore. Sa cosa rischia. Come ha scritto Paolo Bari sul Corriere del Trentino (ricordando che da decenni nella zona covava l’ irredentismo italiano e che alla I Guerra d’ Indipendenza erano accorsi tanti volontari da far costituire una «Legione trentina») «di fronte alla crescente manifestazione di idee antiaustriache, il potere asburgico accentuò le misure repressive. Fu per esempio riesumata una "regia patente" (cioè un decreto) del 1834 che prevedeva la punizione delle persone che avessero indossato l’ uniforme di un esercito straniero. Il provvedimento comprendeva la sospensione del diritto di proprietà, con effetto anche ereditario». Sa tutto, Nico. Ma parte. Cantando «Addio mia bella addio, / che l’ armata se ne va...» Il 30 e 31 maggio è a Palestro, in Lomellina, nel pieno di una delle battaglie fondamentali della guerra, vinta grazie a un leggendario assalto del III Reggimento degli «Zouaves» (le truppe scelte francesi chiamate così con un adattamento del nome «Zwawa» con cui gli arabi indicavano la tribù degli «Igauauen») guidati dal colonnello Chabron. In estate, chiuso il conflitto con la cessione della Lombardia ai Savoia, fondamentale per l’ Unità, è a un bivio: se torna a casa rischia l’ impiccagione. E Camillo Benso conte di Cavour non sembra interessato al Trentino. Nonostante la dimostrazione d’ amore data dai 400 trentini corsi ad arruolarsi. Nonostante la lettera a Vittorio Emanuele II del giurista Antonio Gazzoletti: «Appunto perché infeudati mostruosamente a Germania, sentiamo con più calore di essere italiani e strettamente legati alla causa dei nostri fratelli...». Nonostante la mozione votata il 23 luglio all’ unanimità dal consiglio comunale di Trento: «Il bisogno più grande, l’ interesse più vitale per il nostro Paese, in specie dopo gli ultimi avvenimenti, è quello di essere congiunto sotto i riguardi politici ed amministrativi colle altre provincie italiane della Monarchia, e più precisamente colle provincie italiane della Venezia (..) Il Consiglio comunale reclama imperiosamente l’ aggregazione colle provincie venete». Nonostante l’ appoggio a quella mozione, ricorda ancora Bari, dei comuni di Rovereto, Riva, Condino, Tione, Stenico, Levico, Strigno e Borgo e un analogo appello della Camera di Commercio di Rovereto sottoscritto da ben 749 aziende locali. Documento che fa a pezzi la tesi di certi revisionisti di oggi secondo cui il Risorgimento fu solo un’ operazione elitaria ed eterodiretta. «Nico» decide di andarsene. Si arruola nella Legione straniera francese, finisce in Algeria, se ne innamora. Qualche anno dopo convince un gruppo di famiglie trentine a seguirlo. La Francia sta cercando di «europeizzare» il più possibile i possedimenti nordafricani. Acquistate 273 mila pertiche di terreno (pari a 546 ettari), i trentini si insediano sulle rive dell’ Oued Isser con un altro gruppo di italiani, ticinesi, spagnoli per un totale di 56 famiglie. E qui, come racconterà Giobatta Trentini in un manoscritto del 1892, tirano su le case «sullo stesso sistema e nel medesimo modo come in Trentino» con «nel mezzo una magnifica Chiesetta amministrata da un curato italiano». Chiesetta della quale resta oggi una sbiadita fotografia. Il 18 novembre 1867 il borgo viene battezzato col nome della battaglia risorgimentale dov’ era cominciato tutto: Palestro. Il 18 novembre 1869 è ufficialmente riconosciuto da un decreto di Napoleone III. Il «maire», cioè il sindaco, è lui, Domenico Bassetti. Il grande sogno degli italiani dura però pochissimo. Nella primavera del 1871 i ribelli di Mohammed el-Moqrani appoggiati dalla Rahmaniya, una confraternita musulmana, incendiano la Cabilia seminando la morte nei villaggi dei «pieds noir». Un mese dopo i fatti, su La Voce cattolica di Trento, il curato di Lasino racconterà di aver saputo dal Messager Journal de Alger e da un paesano miracolosamente rientrato che «in tutti quei villaggi erano già all’ erta, e in particolare a Palestro, dove già da più di un mese e mezzo dovevano montare la guardia tutte le notti, per il pericolo d’ esser assaliti dagli arabi». Prima viene messo a ferro e a fuoco il paesino di Bodavò, poi quello di Igisier. Bassetti, preoccupatissimo, affida la moglie Virginia Ursula Solvini e le due figlie a Pietro Chisté (suo cognato, par di capire) perché le porti ad Algeri e lanci l’ allarme. I cabili irrompono il 21 aprile 1871. I nostri si rifugiano in canonica e in un edificio vicino. Scriverà il 4 maggio il giornale Il Buonsenso ripreso da La Voce Cattolica: «Gli uomini validi e ben armati erano nel presbiterio; nell’ altra casa erano le donne, i fanciulli e pochi uomini. (...) Si combatté per un’ intera giornata, uccidendo un gran numero di arabi. Verso sera costoro vennero a fare proposte di capitolazione. Essi offrirono di condurre tutti fino all’ Alma, restituendo le armi e le munizioni a due chilometri da questo villaggio. Queste proposte fatte a voce furono subito accettate dagli assediati, a capo dei quali stavano la squadra della Gendarmeria e il sindaco Bassetti». A quel punto, prosegue la cronaca recuperata anni fa in L’ emigrazione dal Trentino dallo storico Renzo Grosselli, «fu aperta una porta; ma allora fu invasa, e cominciò il macello. Gli sventurati traditi lottarono fino all’ estremità. Bassetti, uomo energico e dotato di forza erculea, uccise cinque assalitori a colpi di pugnale; un gendarme ne uccise tre. Ma alla fine soccombettero al numero, e caddero gli uni dopo gli altri. Allora cominciò una scena orribile. Furono spogliate le vittime, furono profanati i cadaveri, ed a quelli ch’ erano ancora in vita furono inferte mille torture prima di ucciderli. L’ altra casa, in cui stavano dieci uomini e trenta donne e fanciulli, sostenne un assedio di una notte e due giorni, senza acqua e senza viveri. Facevano sempre fuoco, e gli arabi cadevano ma non si ritiravano. Alla fine questi misero il fuoco alla casa e coloro che vi erano rinchiusi si arresero a mercede». Quando arrivò alla guida della colonna di soccorso, nel pomeriggio del 23 aprile 1871, «dopo una faticosa marcia senza interruzione di sette ore», il colonnello Fourchault scoprì che era troppo tardi: «Oh, vista orribile! Il villaggio distrutto, le case saccheggiate e abbruciate, e 46 cadaveri sparsi qua e là fuori del villaggio, tutti uomini sul fiore dell’ età, però nessuna donna e nessun fanciullo, e non si conosce ancora la sorte toccata a questi ultimi, in ogni modo sembra che siano istati fatti prigionieri e condotti in schiavitù ove non possono aspettarsi che un luttuoso avvenire».
Sergio Rizzo Gian Antonio Stella