Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 23 Lunedì calendario

MAI PIÙ COME A ROMA ‘60 LE OLIMPIADI DELLA FELICITÀ

L´immagine chiave è questa: le fiaccole tremolano ai lati del secolare selciato dell´Appia Antica, lo batte il piede scalzo di un uomo solo al comando, l´etiope Abebe Bikila sbucato dal millenario buio dell´Africa. Ma in testa, davanti a lui, per consentire al mondo intero di vederlo, adesso e in ogni possibile avvenire, c´è un cameraman, addetto alla prima ripresa televisiva olimpica. La strada del passato, l´uomo del presente, il mezzo del futuro. Un incrocio perfetto. Uno di quegli istanti in cui vedi il filo della storia dipanarsi e puoi capire da dove viene e dove è diretto.
Forse non se ne accorsero allora, quelli che c´erano e potevano farlo. Li abbacinò lo splendore del lì ed allora, guardarono la rotaia scintillante e non videro scattare lo scambio. Cinquant´anni dopo è ormai diventato un luogo comune: quelle del 1960 furono le Olimpiadi perfette; di più, voltarono la pagina, segnarono la fine di un´era e l´inizio di un´altra. Davanti a quell´uomo scalzo marciava la modernità: più rapida, con il marchio dello sponsor sul petto e qualche miscela sospetta in corpo, feroce e fallata, ma inevitabile.
Già l´organizzazione ebbe un´intuizione: ambientare le gare tra scenari d´epoca e costruzioni avveniristiche. Roma si mostrò come al mondo piaceva immaginarla e come non aveva mai pensato potesse essere. I lottatori si esibirono nella basilica di Massenzio, i pugili nel nuovo palazzo dello sport di Pier Luigi Nervi, in cui Vittorio Gassman si sarebbe aggirato declamando: «Ideale! Funzionale! Arte fatta per il consumo!». I ginnasti volteggiarono alle terme di Caracalla, i ciclisti sprintarono sulle assi di quercia del Camerun nel miracoloso velodromo, i cui spalti consentivano un´ottica perfetta da ogni punto.
Ci si lasciava alle spalle una guerra, l´Italia era il primo Paese sconfitto a organizzare un evento internazionale di quella portata, quattro anni dopo sarebbe toccato al Giappone. La Germania sfilava unita, il Muro di Berlino sarebbe stato un arredo ingombrante nel cortile di questo trascorso mezzo secolo, opportunamente smantellato. Il segnale della globalità a venire, in cui i picchi di eccellenza avrebbero potuto emergere dovunque, venne proprio da quei Giochi. Si sgretolarono tradizioni: un tedesco vinse i 100 metri piani, un italiano con gli occhiali da sole i 200. Ci furono imprevisti rovesciamenti, aperture al possibile: il Pakistan soffiò la medaglia d´oro dell´hockey su prato all´India (non più britannica), la Yugoslavia, eterna seconda, vinse il clandestino torneo di calcio, et voilà i ginnasti giapponesi. Spirò un´aria di egualitarismo, di redistribuzione delle opportunità. Presidente del Cio, è vero, era un razzista, filonazista e antisemita, l´americano Avery Brundage, ma gli toccò veder sfilare come portabandiera del suo Paese il primo atleta nero: Rafer Johnson. Barack Obama sarebbe stato concepito di lì a due mesi.
«Sfila al cospetto dei dioscuri la straordinaria umanità della maratona. Bianchi gialli e neri si lanciano…", con questo linguaggio aulico si apriva una telecronaca, ma era pur sempre una novità: 106 ore di riprese. Si videro in diretta cose eccezionali in ogni senso: una nuotatrice americana (Carolyn Wood) si fermò nella finale dei 100 farfalla perché bevve, un ciclista danese (Knud Jensen) si accasciò durante la gara su strada e morì, ufficialmente per il caldo, ma non senza il concorso delle droghe ingerite. Primi casi di doping, primi marchi pubblicitari (quattro anni dopo Bikila avrebbe marciato mostrando il logo delle scarpe), primi effetti collaterali di quel tempo nuovo, controindicazioni per l´uso che, nella fretta di correre avanti, nessuno avrebbe letto attentamente. La nostalgia tradisce, ma anche a riguardare l´almanacco dei fatti per l´Italia sembrava davvero l´alba. Il pil stava a +8,3%, la lira aveva ricevuto l´oscar della moneta, Pietrangeli vinceva al Roland Garros, Nencini al Tour, al cinema davano "La dolce vita" e "Rocco e i suoi fratelli", l´oscura parentesi del governo Tambroni era stata malamente chiusa e si varava il monocolore Fanfani, pentapartito mascherato, tran tran da prima repubblica che oggi sembra più accettabile di allora.
Cinquant´anni dopo, la Germania ha di nuovo una sola bandiera, gli Usa un nero alla Casa Bianca, nuove economie orientali (Cina, India) fanno la parte dei ginnasti giapponesi nel medagliere. E l´Italia? In un convegno celebrativo al Foro Italico, mentre Andreotti sonnecchiava e il suo erede Letta pazientava, il sindaco di Roma Gianni Alemanno (che all´epoca aveva due anni) ha detto: «In questi luoghi si respira ancora traccia di quell´evento. Non furono Olimpiadi usa e getta, con stadi demoliti il giorno dopo». In effetti il velodromo è stato abbattuto nel 2008, dopo quarant´anni di disuso, divenuto residenza per clandestini. Nella Roma effervescente di Veltroni doveva diventare Città dell´acqua, polo del nuoto e del wellness. Affondato in un esubero di piscine, Alemanno ha scelto la soluzione residenziale, vai con le palazzine. Nel luogo, al momento, il timore è che si respiri traccia d´amianto.