FABIO SCUTO, la Repubblica 23/8/2010, 23 agosto 2010
NOI, PRIGIONIERI DI HAMAS SENZA LAVORO ED ELETTRICITÀ" - GAZA CITY
Cinque anni fa l´ultimo degli 8mila coloni della Striscia, in un clima da psicodramma collettivo in Israele, lasciava questa terra. Quel ritiro, «disimpegno» nel lessico adottato dall´allora premier Ariel Sharon, aveva suscitato molte aspettative nella popolazione palestinese ma anche molte inquietudini. Quelle inquietudini sono diventate fatti concreti. Su Omar Mukthar Street, la via del commercio di Gaza, c´è via vai di macchine in questi giorni di Ramadan, ma i negozi sono vuoti. Non è per l´indolenza che durante le ore del Ramadan prende un po´ tutti per via delle privazioni - l´acqua, il cibo, il sesso e le sigarette, dall´alba al tramonto - ma perché fra la gente di Gaza quelli che hanno qualche shekel da spendere sono davvero pochi.
Le condizioni di vita nella Striscia sono peggiorate. Quel ritiro non ha portato nessuna prosperità, anzi le condizioni di vita sono via via degradate in una spirale che ha risucchiato dentro il milione e mezzo di abitanti della Striscia fino a scendere anche gli ultimi gradini. Il blocco aereo e marittimo da parte di Israele - alleggerito solo in queste ultime settimane -, le distruzioni della guerra del 2006, quelle dell´Operazione "Piombo Fuso" nel dicembre 2008, hanno intaccato le strutture, disarticolato un territorio urbano, distrutto un´economia. L´incapacità di Hamas di essere partito di governo poi ha fatto il resto: il tasso di disoccupazione oggi supera il 50 per cento e secondo l´Onu un milione di persone per sopravvivere dipende dagli aiuti alimentari internazionali. Hanno perso il lavoro anche quelli che lavoravano nel commercio alimentato dai tunnel per il contrabbando sotto il confine con l´Egitto. Bombardati dagli aerei israeliani e fatti saltare in aria dall´esercito di Mubarak, i tunnel hanno smesso di alimentare il mercato nero, su cui - anche su questo - Hamas esigeva una decima.
A Gaza non arriva nemmeno quel refolo di speranza agganciato alla ripresa del negoziato fra Anp e Israele, su cui il presidente americano Obama questa settimana ha giocato molto del suo prestigio. Hamas di trattativa non vuol sentir parlare. «È l´ennesimo inganno dell´America», taglia corto nel suo ufficio Sami Abu Zuhri, portavoce del movimento integralista. Che la gente qui non sappia come mettere insieme il pranzo con la cena è una colpa da scaricare su altri - certo anch´essi in parte responsabili - ma senza un dubbio, con l´ostentazione di chi è convinto di essere sempre nel giusto, costi quel che costi.
La democrazia non abita da queste parti, qui si impone col pugno di ferro la propria visione del mondo, soffocando anche nel sangue ogni opposizione, restringendo ogni libertà di espressione che non sia compiacente con il regime. L´auto svolta sul lungomare dove resta qualche albergo che ha visto giorni migliori; più avanti c´è la residenza del presidente dell´Anp, che Hamas ha trasformato in una prigione. I reati non sono rari a Gaza ma restano quasi sempre impuniti, le celle sono piene di uomini di Fatah, il partito del presidente schiacciato dal golpe islamico del 2007. È odio puro quello che passa tra i due maggiori partiti palestinesi.
L´islamizzazione forzata della Striscia va avanti senza leggi ma a colpi di minacce, intimidazioni, piccole e grandi vendette. Come quelle contro i campi estivi dell´Unrwa - l´agenzia Onu che assiste i profughi palestinesi - bruciati in una notte. Così come sono scomparsi i locali che vendevano alcolici - ne sono saltati in aria un bel po´ -, i caffè Internet e due sale di incisione; la musica hip-hop e quella delle orchestrine ai matrimoni è stata bandita. «Se si dovesse rivotare oggi», spiega un amico che per la sua sicurezza chiameremo M., «votare liberamente dico, Hamas ne uscirebbe a pezzi, nessuno ne può più di questo regime. Mi chiedo in nome di che cosa dobbiamo vivere in questo modo? Ma lo sai che a casa abbiamo l´elettricità 8 ore sì e 8 ore no? E quelli se fregano. Hanno i generatori, hanno soldi: perché chi sta con Hamas ha il lavoro sicuro, magari pagato male ma è sempre un lavoro».
Buona parte dell´occupazione della Striscia era impegnata nell´edilizia ma la ricostruzione resta un sogno: il cemento è fra le merci proibite a Gaza, al primo posto nella black list. Di case semidistrutte se ne vedono tante ma «quattro nuove città verranno costruite sui terreni delle ex colonie israeliane» sostiene, non si sa con quale certezza, il ministro di Hamas per l´edilizia Youssef al-Mansi. Una parte della popolazione viveva della pesca ma a vedere il mercato del pescato si stringe il cuore. Pochi pesci e niente compratori. Il mare di Gaza è avvelenato, dagli scarichi delle acque fognarie, dai liquami che finiscono direttamente in mare dopo la distruzione dei depuratori della città e la paralisi di quelli rimasti in piedi, che non hanno energia. Ad allontanarsi troppo dalla costa si rischia: non oltre le 6 miglia, altrimenti la Marina israeliana che ha decretato il blocco navale spara. Resta l´agricoltura, azzoppata dall´impossibilità di esportare. Ma anche in questo settore Hamas lancia immaginifici progetti. «L´anno scorso abbiamo piantato 150mila olivi e alberi da frutto», racconta il ministro dell´Agricoltura Mohammed al-Agha, «e speriamo di raggiungere l´80 per cento di autosufficienza agricola nei prossimi 5 anni». Cinque anni di questa vita non sono un futuro, non sono una speranza, sono un incubo. E questo incubo si chiama Hamastan.