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 2010  agosto 22 Domenica calendario

IL MESTIERE DI ALLENATORE

Che campionato sarà quello che comincia domenica prossima? Senza Mourinho, dopo i fallimenti di Capello, Lippi e Maradona il mister tornerà a essere un insegnante di calcio? E sulla scena gli attori saranno uomini, bambini viziati o ragazzi cattivi? Lo domando a Cesare Prandelli, cinquantadue anni, nuovo commissario tecnico della Nazionale. Si parte da lontano, da che cosa c´è o ci dovrebbe essere dentro un mestiere fortunato. Il mestiere di allenare può contenere un desiderio, nient´altro. Chi è nato povero sa che è molto meglio desiderare che possedere. Finché non si possono toccare, le meraviglie inseguite racchiudono in sé qualcosa di magico.
A Orzinuovi il nonno di Prandelli aveva una piccola azienda di acque minerali e bibite, ogni sera riuniva figli e nipoti attorno al tavolo della cucina, contava l´incasso della giornata, metteva i soldi in una scatola e, prima di nasconderla nel tiretto più basso della stufa, teneva da parte una manciata di monete che buttava sul pavimento ai bambini. Cesare era il solo a non raccoglierle. Non voleva chinarsi verso un´elemosina, voleva guadagnarsi il suo Natale. Agognarlo. Lo fa ancora adesso. È rimasto là, nella fila di quelli che desiderano. Dice: «Certo, mi dà fastidio non avere vinto nulla, se non due scudetti e un Viareggio con le giovanili, ma so che succederà presto. Io sono fortunato». Ma subito insiste sulla relatività di fortuna e sfortuna, ricorda la parabola dei due contadini dai poderi confinanti, uno che smarrisce la vacca più bella della stalla e l´altro che gli fa pesare la disgrazia, ma il primo dopo qualche giorno ritrova la mucca nel bosco e con lei un cavallo, la sfortuna ha generato una fortuna, e i due vanno avanti all´infinito tra miserie e ricchezze, figli strappati dalle guerre e affetti riguadagnati, carezze e rovesci della sorte, perdendo la misura dei destini paralleli.
«Prendi la cosa peggiore che può succedere a un allenatore: il licenziamento. Spesso l´esonero è un bene, ti permette di guardarti dentro per capire se e dove hai sbagliato. Puoi imparare a sdrammatizzare. Quando Zamparini mi cacciò dal Venezia alla quarta giornata di campionato, mi spaccai la testa per settimane. Che faccio? Adesso che faccio? mi ripetevo ossessivamente. Fino a quando un giorno ho cominciato a giocare a golf».
La casa di Cesare Prandelli è in via della Torre del Gallo, sopra Firenze, un po´ di verde e di vento, tanto cielo. Sulla soglia si sta accomiatando qualcuno della Fiorentina. È passato a dargli le ultime notizie. Due giocatori si sono separati dalla moglie, uno di loro vuole fargli sapere di avergli lasciato una lettera al bar, l´uomo gli dice che gliela porterà. Al piano terra un tapis roulant, molti libri, nessuno di calcio, cataloghi d´arte, quadri moderni ai muri, una piccola scrivania con un computer portatile, un tavolo da lavoro degli anni Cinquanta con lo stantuffo della morsa di legno, fotografie della moglie Manuela che non c´è più, un gagliardetto della Nazionale. Prepara il caffè, dopo che lo abbiamo bevuto risciacqua le tazzine. «È la solitudine che mi fa essere ordinato», dice. Bisogna cancellare anche le tracce della nostra presenza per ingannarla. Il figlio Nicolò si è sposato e lavora a Parma, la figlia Carolina rimarrà un anno in Inghilterra per motivi di studio. «L´allenatore è sempre solo. Fino a quando non si confronta con la squadra. Non posso dire di avere amici tra i colleghi, ho frequentato a lungo solo chi ha fatto il corso con me a Coverciano: Colomba, Sandreani, Novellino».
Questo è un mestiere che si inizia a indossare quando se ne pratica ancora un altro. Per lui cominciò nell´ultima stagione alla Juventus e nell´autunno della carriera a Bergamo. «Mi accorsi che avevo smesso di guardare la partita con l´occhio piccolo del giocatore, con il narcisismo di chi crede di recitare uno spettacolo privato. Nei ritiri i ragazzi bussavano alla mia camera, mi chiedevano consigli. Non ero un campione, cercavo di farmi apprezzare per qualcos´altro. Sotto la maglia di calciatore ho cominciato a sentirmene un´altra». Nell´Atalanta un ginocchio lo abbandona, si fa operare ma i medici gli consigliano di smettere se non vuole rischiare di rimanere zoppo. «Ho trentadue anni, dico a Emiliano Mondonico: vado a Orzinuovi e mi cerco una squadra di bambini, mi piacerebbe insegnare calcio. Lui mi fa: aspetta, parlo io con il presidente. Cesare Bortolotti mi propone di restare, c´è un posto nelle giovanili. Morirà dieci giorni dopo, durante i campionati mondiali del ´90. Faccio appena in tempo a dirgli grazie».
Sono tre mesi che Prandelli si domanda che cosa può fare per l´Italia. «Non ho una risposta, rifletto su come sia stato possibile che una squadra campione del mondo non sia riuscita a farsi amare e sia andata in giro a prendere fischi. Se i tempi non cambiano, dobbiamo provare a cambiarli noi. Forse bisogna tornare alla semplicità. Mi piace il paragone con il lavoro dell´artigiano, il falegname che torna a usare il talento delle mani e che sa di non potere costruire un letto in un giorno. Stiamo annegando nel calcio dei paradossi. Ci sono autisti che in due mesi diventano dirigenti o procuratori, buoni calciatori che dopo un colpo di tacco vengono celebrati come campionissimi e si fa fatica a convincerli che si è trattato di un episodio, genitori che abdicano al loro ruolo, presidenti che promettono di puntare tutto sui giovani salvo poi farli fuori dopo due sconfitte perché in realtà ciò che vogliono è il risultato e lo vogliono subito, anzi, se esiste una scorciatoia da qualche parte sono già lì che prendono la rincorsa. Questo è il paese delle scorciatoie. Io predico ai miei giocatori: non tutto vi è dovuto, dimostratemi che sapete essere generosi e curiosi. L´altro porta dentro di sé una cultura, avere l´umiltà di volerlo conoscere ci arricchisce».
La semplicità è la lente di ingrandimento attraverso la quale guarda la sua professione. «Il calcio è semplice, forse geometrico, per dirla con Zeman. Nello sviluppo del gioco non esistono schemi. Gli schemi si applicano soltanto su palle inattive. Dopo l´Olanda di Cruijff, fu rivoluzionaria l´Italia dell´82 in Spagna. Bearzot giocava con due punte, due mezze punte e due esterni offensivi. Scirea era un centrocampista aggiunto, Cabrini un attaccante di fascia. Sacchi ha portato l´organizzazione al potere. Giocava già il martedì la partita della domenica, spostando la squadra in avanti di trenta metri creava un effetto sorpresa che schiacciava l´avversario nella sua metà campo. Zeman ha insegnato agli allenatori italiani come si attacca, è stato un maestro straordinario della fase offensiva, uno che continua a essere studiato. Mourinho è un talento nel prendere la testa del gruppo, costringe Eto´o a fare il terzino, sposta Cambiasso stopper, manda in panchina Maicon e Stankovic eppure tutti lo amano e lo temono come fosse Alessandro Magno o Napoleone. Oggi le squadre sono organizzate. Non c´è più nulla da inventare, ci hanno provato solo i tedeschi in Sudafrica con un 4-2-3-1 senza punti di riferimento. La differenza la fanno la velocità di esecuzione, cioè pensare in anticipo il passaggio, il possesso palla e le qualità tecniche dei giocatori. Ormai esistono soltanto due tipi di allenatori: quello che sa far crescere i giovani, come Wenger e Guardiola, e quello che sa gestire i fuoriclasse. Senza campioni l´allenatore conta poco e non vince più, basta pensare alla Spagna che ha conquistato Europei e Mondiali con due tecnici diversi. E all´Inter, di gran lunga la favorita del campionato che sta per iniziare, nonostante l´arrivo di Adriano alla Roma e la rinnovata Juventus di Del Neri che farà bene perché è un martello e ha il coraggio di dire in conferenza stampa: Del Piero sta fuori. Ecco perché dobbiamo costruire nuovi talenti».
Mi racconta di quando allenava i giovani dell´Atalanta. Avevano abolito le classifiche, ogni quaranta giorni ai ragazzi venivano controllati i risultati scolastici e chi aveva brutti voti era escluso dalle convocazioni. «Mino Favini era il responsabile del settore giovanile. Chiamava me, Vavassori, Gustinetti e Finardi e ci raccomandava di non frenare mai l´abilità dei giocatori, di non modificare le loro caratteristiche più istintive, anche quando le ritenevamo un limite, un´incompletezza. C´era, per esempio, Thomas Locatelli che faceva tutto con il mancino. E Mino che ci ripeteva: lasciatelo in pace, si diverte, avrà tempo per usare anche il destro. A Bergamo ho imparato che vincere è importante, ma che il vero piacere fisico lo provo quando dalla panchina vedo la mia squadra stare in campo con l´idea che ho cercato di cucirle addosso e tutti hanno i tempi di gioco giusti, non solo i tempi per se stessi. E mi dico, felice: questa è una squadra».
Cesare Prandelli ha frequentato due università. È stato due anni a Coverciano con Franco Ferrari, il professore, un maestro di tecnica e tattica. Sei a Torino, nella Juventus di Trapattoni, Zoff, Scirea, Tardelli, Causio, Furino, Bettega, Platini, Rossi, Boniek. Una squadra dallo spirito militare, unita nella divisione, spietata anche al suo interno. Nello spogliatoio si fronteggiavano due gruppi, quello di Furino e quello di Bettega. Arrivò Platini, soffrì sei mesi, li decapitò entrambi e prese il comando. Boniperti piombava agli allenamenti e scriveva con il gesso i nomi di tre giornalisti sulla lavagna: «Con questi non dovete parlare». Nessuno sgarrava. All´uscita del campo gli ultimi arrivati chiedevano le generalità all´intervistatore che gli si parava di fronte e se era uno di quei tre scappavano via in un amen. Alla faccia dello stile Juve. «Ogni settimana organizzavamo una cena in qualche ristorante della collina. Era un nostro desiderio, ci svagavamo, si imparava a conoscersi. Dividevamo il conto, nulla era gratis. Se qualcuno beveva tre bicchieri di vino in più, gli altri lo fermavano. Stare assieme costituiva la forza di quella squadra, anche se non posso dire vi fosse amicizia vera, se non tra Zoff e Scirea. Gay era una persona di intelligenza e bontà rare, non ha mai pronunciato un giudizio cattivo su un compagno o un avversario. Dino era taciturno, ricordo di averlo sentito parlare solo due volte nello spogliatoio, ma in quelle due occasioni tutti gli altri si sono zittiti e hanno abbassato la testa sugli scarpini».
Balotelli e Cassano, se vogliono, intendano. «Con Cassano non ho mai litigato, gli va tolto il marchio che si è messo sulla pelle. Per Balotelli vale la regola Favini: lasciamolo divertire, per ora, e che faccia i suoi numeri da giocoliere. Il tempo contiene sempre la verità. Penso a Pazzini, sono assolutamente certo di non avere sbagliato con lui. A Firenze era troppo coccolato, non sarebbe mai cresciuto. Oggi, rispetto a venti, trent´anni fa, i giocatori sono più individualisti. Vivono barricati nel loro mondo e spesso quel mondo è malamente popolato. Li vedi uscire da una sconfitta sorridenti, come se non gliene fregasse nulla, eppure ci sono atteggiamenti di strafottenza che vanno interpretati nel loro esatto contrario, perché esprimono uno stato d´animo di disagio. Ho letto così il gesto degli azzurri più giovani ai mondiali, quelle foto scattate con i cellulari prima della partita decisiva con la Slovacchia. Mi è sembrato il sintomo di una difficoltà, di paura, una richiesta di aiuto. Il lavoro fuori campo di un allenatore è questo: cercare di prevenire i problemi, ascoltando anche i silenzi. Durante la settimana il giocatore ti trasmette sempre qualcosa, se lo capisci in ritardo, e a me è successo, sei fottuto».
Cesare Prandelli è un timido, come tutti i timidi è permaloso. Come tutti gli onesti, di una franchezza acuminata. Ha detto tre volte no alla Gea di Moggi, nel mestiere non fa il padre né l´amico, è gentile ma duro, la domenica dopo la partita non parla alla squadra per non correre il rischio di dire cose sgradevoli, lo fa il martedì, un "processo" di quasi un´ora sugli aspetti temperamentali e caratteriali. Non va a cena con i giocatori. «Sono professionisti super stipendiati. Devono assumersi le proprie responsabilità, se li assecondi tendono allo scaricabarile. Sono pronto ad ascoltare i loro problemi, come un genitore con i figli adulti. Ma c´è un momento in cui devono tirare fuori l´anima. Devono andare avanti. Da soli. Non possono girarsi, non possono guardarmi. Se lo fanno sono pronto a dir loro, anche con violenza: adesso basta. Lo dovremmo fare di più».