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 2010  agosto 21 Sabato calendario

LE FORMULE DEL TORMENTONE

Luglio, col bene che ti voglio o «L´estate sta finendo» o «Da da da» o (il Cielo abbia pietà) la «Macarena»: la canzone-tormentone estiva non è più immancabile, però alcune estati recenti ne hanno avuto una («Mambo number 5», 1999; «Bruci la città», 2007).
Il tormentone estivo del 2010 invece non è stato musicale. Le sue condizioni di produzione sono note. Due teenager, intervistate da un tg in uno stabilimento balneare di Ostia a proposito del fatto che è estate e fa caldo, hanno raccontato come combattono la canicola: docce, bagni di mare, ghiaccioli, bibite ghiacciate. Non sono certo questi i motivi per cui questo servizio, dopo essere andato in onda su Sky Tg24, è stato poi caricato su YouTube e quindi visto e rivisto e stracommentato prima da eserciti di fruitori esilarati, quindi da opinionisti più pensosi. Spicca fra tutti Carlo Verdone che, coraggiosamente ma non insensatamente, a proposito delle ragazze di Ostia ha evocato Pier Paolo Pasolini. Il primo servizio video (sono seguiti epifenomeni trascurabili, tra cui inevitabilmente anche una canzone) aveva infatti un punto di attrazione di cui forse chi per primo l´ha messo in onda non si è neppure ben reso conto: il vernacolo in cui le due ragazze parlano («Chennesò, ‘n Calippo, ‘na bira... «). È certamente quella forma di romanesco che di per sé pare rendere possibili metafore particolarmente innovative («Sto a fa´ ‘a colla», per: «Sto sudando»); ma altrettanto certamente si differenzia dal romanesco dei film di Vanzina, o da quello dei film di Verdone, per il fatto che è nativo, e non è una ricostruzione.
Dal punto di vista di una stessa scienza del tormentone – futuribile, se non futura – la differenza è rilevante.
Quando Verdone ritaglia da un parlato reale (o inventa) il suo «famolo strano», ha tutte le intenzioni e le speranze di renderlo un tormentone e in ogni caso lo usa per connotare il suo personaggio.
Con il loro Calippo le due ragazze non vogliono connotare un bel niente: vogliono solo apparire simpatiche e spigliate nel dire, proprio e soltanto, cosa fanno due ragazze come loro quando hanno caldo. Sembrano anche ragionevolmente stupite del fatto che possa interessare a qualcuno (al cameraman: «che, me stai a ripija´? »). È come se negli anni Settanta i jukebox delle riviere invece che garbate canzonette scritte da parolieri e musicate da maestri avessero emesso insistentemente la riproduzione hifi dello zufolare di un pedone.
In tutta questa storia il vero tormentone è (ovviamente) quello dei servizi dei tg che quando fa caldo ci fanno sapere che fa caldo: un vero mistero del giornalismo. Trovare due ragazze che dicono cose come «Sto a fa´ ‘a colla» è una fortuna insperata, e anche immeritata; così come quando in un´intercettazione invece che allusioni e nomi criptati si trova uno che dice «Che, stamo a fa´ i furbetti del quartierino?».
Rispetto ai buoni vecchi tormentoni di una volta, è cambiata innanzitutto l´intenzionalità del tormentone. Una volta lo cercavano solo gli autori di canzoni e sigle televisive, gli autori dei Caroselli e pochi personaggi e autori tv (Mike Bongiorno, poi Renzo Arbore e Gianni Boncompagni, poi Antonio Ricci). Ora lo cercano e lo vogliono imporre proprio tutti: le banche, i premier, i calciatori, i quotidiani d´opinione. Una volta, al mondo, si parlava e si copulava. Ora si fa comunicazione e si fa sesso (contemporaneamente, a volte). Per «fare comunicazione» per lo più si intende: provare a imporre un tormentone al prossimo.
Ennio Flaiano sarebbe certamente stupito (ma chissà se lusingato) a sapere quanto vengono ripetute oggi quelle sue frasette originali con cui deliziava i suoi interlocutori e i lettori (relativamente pochi) dei suoi articoli. E se uno tra Alberto Arbasino e Beniamino Placido avesse messo sotto copyright «la casalinga di Voghera»... Il caso di Arbasino è poi sintomatico perché oltre ad avere proprio inventato la parola «tormentone» (in Super-Eliogabalo, 1969) ha frequentato la cosa ad abundantiam. Il 23 gennaio del 1963, nella sua rubrica «Le mura e gli archi» (sul Giorno) pubblicava un articolo sulle carenze di aggiornamento della cultura italiana in epoca fascista. È la prima apparizione della «gita a Chiasso»: «Bastava arrivare sino alla stanga della dogana di Ponte Chiasso... « e mandare un contrabbandiere a comprare cioccolato e Wittgenstein. Lo stesso anno l´articolo viene poi ripreso da Arbasino nel romanzo Fratelli d´Italia. Nella seconda edizione del romanzo, del 1976, si parla già della «solita, la famosa, la noiosa gita a Chiasso. .. Lo si è ripetuto le mille volte, bastava arrivare fino alla stanga della dogana». Nella terza edizione, del 1993, questa forma non di anacronismo ma di «ipercronismo» porta Arbasino all´autoirrisione: «E ormai diventa una solfa che suona dietro come il barattoletto attaccato alla coda del cane.. Ma basta arrivare fino alla stanga della dogana... «. Come se in una riedizione di L´ultima minaccia, Humphrey Bogart dicesse: «È la stampa, bellezza: sono anni che te lo dico».
Nel frattempo, dall´alta letteratura alla media (nel senso dei mass-media) cultura il tormentone aveva già perso ogni sua insostenibile innocenza. Oggi è una strategia diffusionale consapevole, la figura retorica dominante, il virus ubiquitario ed epidemico a cui si affida la nostra speranza di rinnovare moduli espressivi sempre più frusti. Così in spiaggia a Ostia, e così nella recente brochure turistica che postulava: «In Alto Adige si comprende che cos´è la bellezza allo stato puro, senza se e senza ma».
Un´altra caratteristica relativamente nuova è la riproducibilità tecnica del tormentone multimediale. In passato erano possibili quasi soltanto tormentoni musicali perché la forma-canzone era l´unica a consentire una propria diffusione virale, tramite juke-box, mangiadischi e audiocassette.
Si parlava della canzone più «gettonata» e il neologismo evoca la nascita del tormentone lungo le tappe di una vera e propria sceneggiatura (entrare nel bar, cambiare una moneta con un gettone, mettere il gettone nel juke-box, selezionare quella canzone e non un´altra). Senza più gettoni né limiti ciò è ormai possibile e pressoché inevitabile non solo con le canzoni ma anche e soprattutto con «pillole» video, che rimbalzano dalla tv ai monitor dei computer in rete, agli smartphone, agli iPad, ai social network con un nuovo formulario standard che ai «La sai l´ultima?» dei barzellettieri ha sostituito i «Fate girare, ragazzi, fa morire».
Renzo Arbore, oggi, quando mangia un ghiacciolo o a maggior ragione quando si fa una birretta, forse pensa: «taggate, gente, taggate».