Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 24/8/2010, 24 agosto 2010
L’ULTIMO MONDADORI SE LA RIDE
Una villa, un nonno, una biblioteca: “Alle Silerchie, l’avamposto folle e meraviglioso in stile Citizen Kane che Alberto aveva fatto costruire nei dintorni di Camaiore, ho trascorso decine di pomeriggi della mia primissima infanzia. Nella stanza dei libri, più di mille metri quadri di copertine e tomi rilegati, mi perdevo felice”. Sebastiano Mondadori non è in fuga dal suo cognome. Pronipote di Arnoldo e nipote di Alberto, il quarantenne approdato con “Un anno fa domani” (Instar) nella prima dozzina dello Strega, utilizza i ricordi per quello che sono. Appigli, suggestioni, lucciole che indicano un’opzione, mai la strada. Quella è una salita individuale. Così Mondadori ha pubblicato per la prima volta a 30 anni: “Un libro lunghissimo, con la Marsilio di De Michelis, dopo decine di rifiuti” e sul rapporto con l’eredità della casa madre, ha lasciato sassi di Pollicino da ritrovare, tracce autobiografiche, lievi accenni: “Prima di capire che in un libro, meno porti di ciò che hai vissuto e meglio è”. Una scuola di scrittura creativa a Lucca, la benedizione di Cesare Segre sulle ambizioni letterarie: “chiacchiere da bar e immortalità dell’anima sono accostate con noncuranza (ed eleganza)” e tre figli che urlano con la Versilia sullo sfondo di un’estate che Mondadori ha scelto di allungare senza calendari .
Nella sua scuola insegna a liberarsi dai condizionamenti?
Un bravo maestro di scrittura è quello che lascia spazio alle differenze. La varietà è una ricchezza e assecondarla un valore. Le espressioni artistiche nascono sempre da un disagio individuale.
A proposito. In questi giorni, sulla casa editrice che fu della sua famiglia, infuria la tempesta del rimorso.
L’importante è avere una coerenza non intermittente. Il Lodo Mondadori è storia di 20 anni fa. E la scelta di lasciare, legittima, si dovrebbe compiere a monte, non dopo decenni.
Carlo Ginzburg e Corrado Stajano: “Preferisco scrivere sui muri piuttosto che per l’Einaudi di Berlusconi”, lo fecero.
Del tutto legittimamente. Anni fa, onestamente, il fremito di fuga sarebbe apparso molto più coraggioso.
Gli scrittori Mondadori che si dibattono nel dubbio dell’abbandono, ricordano l’incapacità del protagonista del suo ultimo romanzo, Vittorio Congedo, di governare gli eventi. Li subiscono.
(Ride). Un po’ è così. Comunque, per essere chiari, coltivo due sogni: pubblicare con Einaudi o con Feltrinelli. E non cambio idea, pur essendo di sinistra, soltanto perché l’assetto proprietario dello struzzo riconduce a Berlusconi.
Per quale ragione?
Sarebbe ridicolo. Einaudi e Mondadori vanno oltre Berlusconi. I padroni cambiano, il marchio rimane. Rispetto alle polemiche che leggo sui giornali, non mi pare che esistano elementi così diversi di valutazione rispetto a 10 o 15 anni fa. La ragione scatenante del malessere, Berlusconi, era lì anche allora.
Einaudi e Mondadori si difendono sventolando la pluralità di voci , ma la liberalità (Belpoliti o Saramago) suona a corrente alternata.
E’ successo, innegabile. Ma rivolgerei lo sguardo al lungo periodo. Il pamphlet o l’attacco politico diretto ha una vita limitata, quello che rimane è la letteratura. Un libro di Philip Roth apre la mente più di una polemica sul Premier.
Non la appassiona?
In letteratura, pochissimo. In quel campo bisognerebbe conquistare una nuova forma d’arte capace di spingersi oltre le dichiarazioni d’intenti. Di chi fa del messaggio la propria bandiera inventiva, istintivamente diffido. Storie. Per rimanere, servono quelle.
Pubblicare con Mondadori dispiega vantaggi nella visibilità e nella distribuzione ai quali è troppo difficile rinunciare?
Senz’altro e non lo trovo un ragionamento così deleterio. Gli scrittori non sono entità astratte. Mangiano, fanno figli, pagano il mutuo. Dignità ed etica sono rappresentati dai libri che scriviamo. Se si parlasse di censura, sarebbe diverso. Se venissi a scoprire che a Saviano hanno tagliato tre o quattro capitoli di Gomorra, urlerei allo scandalo. Ma non è successo e certe grida preventive somigliano a una constatazione di immaturità.
Prego?
Ragionare con dei parametri ideali e pensare che le cose stiano come vorremmo che fossero. Bisogna compromettersi in maniera positiva, affrontare ciò che abbiamo davanti. Il mondo dell’editoria non è dissimile da altri. Non è che scrivere un libro renda migliori di per sé.
Berlusconi letterariamente le sembra interessante?
Nessuno è riuscito a raccontarlo veramente, ci vorrà la distanza del tempo.
Cosa rappresentò Monda-dori per il Paese?
Un miracolo intrapreso da un tipografo al prìncipio del secolo breve e poi trasformatosi nella casa editrice più grande d’Italia. Quella Mondadori e non solo per il suo assetto proprietario, non esiste più. Allora, era un’azienda a conduzione familiare, oggi quasi ovunque trionfa il gruppo editoriale, la sinergia, l’accorpamento.
Che uomo era suo nonno
Alberto?
Una persona che mi manca. Mi sarebbe piaciuto confrontarmi con lui, forse anche la mia produzione sarebbe stata diversa.
Lo descriva.
“Una specie di corsaro, uno che sposta molta acqua: generoso, tenebroso, affettivo ma anche, quando voleva, estremamente allegro e capace di scherzare. Aveva però un insormontabile complesso di padre, una vocazione a farsi del male, quasi suicida, nel senso in cui sono suicidi gli scialacquatori”. Le parole sono di Cesare Garboli, uno che l’aveva conosciuto bene.
Garboli raccontò di un giorno del ‘67 in cui il ritorno a Roma dal Vietnam coincise con un telegramma sulla porta che nessuno degli scrittori di oggi sembra avere la forza di scrivere: “Chiamami subito, lascio la Mondadori. Alberto”.
Riunì tutti al Principe di Savoia. Una riunione tesa, aspra, lunghissima. Proprio Garboli, poco prima di morire, me ne raccontò i particolari. Alberto rinunciò alla presidenza della Mondadori e fondò il Saggiatore. Poi dovette rinunciarvi per i debiti e nessuno della famiglia lo aiutò.
Non mi dica.
Grande editore, amministratore più che modesto. Alberto si indebitò. Non lo difesero perché un Mondadori non poteva fallire, fu costretto a liquidare e quindi a rinunciare a tutte le azioni perché per nonno Arnoldo, suo figlio non poteva dichiarare il fallimento. E nonostante questo, lo stesso Arnoldo riaprì il Saggiatore e su quell’ultima battaglia morì.
Arnoldo andò via nel 1971. Lei lo incontrò?
Senza poterlo ovviamente conoscere a fondo. Era geniale ed ebbe la fortuna di avere un figlio che nonostante desiderasse fare cinema, prestò la sua visione all’azienda. Se mette insieme nel primo dopoguerra Einaudi, Feltrinelli e Alberto Mondadori, ha fotografato un rilevante pezzo della cultura italiana di allora.
Oggi?
Il problema vero è che gli intellettuali non hanno nessun peso e quindi l’editoria è diventata un’altra cosa. Sono diverse le aspettative dei lettori e l’opinione pubblica non è formata da un’elite culturale degna di questo nome.
Un male?
Non sono convinto neanche di questo. Domina il mercato, l’accorpamento, la comparsata televisiva. Tutto qui.
Non c’è il rischio che in questo magma, si perdano anche le coordinate del capolavoro?
E’ possibile. Ma il vero successo si misura sul lungo periodo. Non parlo della gloria postuma che è una stronzata, ma di costruire dei lettori che cercano la tua scrittura, non il tuo volto, indistinguibile, nell’offerta televisiva senza soluzione di continuità.
Torniamo alla famiglia. Se avessero minacciato il vecchio Arnoldo di esodo dalla Mondadori, come avrebbe reagito?
Senza isterie. Facendo un banale calcolo economico tra mancati introiti e anticipi risparmiati.
E ad Alberto, Berlusconi sarebbe piaciuto?
Parla sul serio?
Certo.
Mio nonno venne seppellito a Venezia, avvolto in una bandiera comunista. Può voler dire poco, ma per quel poco, non credo si sarebbero amati molto.