Bernardo Venturi, il Fatto Quotidiano 24/8/2010, 24 agosto 2010
KOSOVO, ESSERE GIOVANI (DISOCCUPATI) E SENTIRSI IN GABBIA - “L’
hai vista l’immagine su muro? Io mi sento così: sono come un burattino in una gabbia. Come tutti quelli della mia età”. Igli, kosovaro sulla trentina, è a cena in un locale dove cucinano ottima carne di maiale. Che mangia, nonostante sia di etnia albanese. Siamo a pochi minuti di auto da Pristina, in un’enclave serba. Dalla fine dei bombardamenti Nato del 1999 in Kosovo la maggioranza etnica è, come Igli, di origine albanese. I serbi vivono soprattutto a nord o in piccole enclavi sparse per il Paese. Igli non ha problemi ad andare a cena in un’enclave serba. “Molti albanesi vengono qui. In un certo senso mi sembra di essere tornato al 1997. Solo che non ci sediamo mai al tavolo con i serbi”. Arriva il cameriere, portando la birra: non è la Peja, la più famosa del Kosovo, che prende il nome dall’omonima città a ovest del Paese, in serbo Pec. Infatti qui la stessa birra si chiama Pec. Come in Montenegro, dove conserva il nome serbo.
Serbo, la lingua che
non si studia più
I CAMERIERI qui, ovviamente parlano serbo, ma per la generazione di Igli non è un problema: il Kosovo era parte della Jugoslavia primaedellaSerbiapoietuttiparlavano la lingua di Belgrado. Ora è diverso: chi non vive tra la minoranza serba non ne ha nessun bisogno e difficilmente sceglie di studiarlo di propria iniziativa. In più, per quanto Belgrado abbia provato e provi tutt’ora a sostenerli,iserbidelKosovosonosempremeno.Sealmomentodelladisgregazione dell’ex-Jugoslavia erano l’11,1%, all’ultimo censimento del 2007 la popolazione è peril92%albanese,il5,3%serbae per il 2,7% di altre etnie, mentre stime recenti parlano di una fetta ancora più minoritaria.
Usciamo dal locale, l’aria è fresca e Pristina da fuori ha un aspetto meno caotico di quello che la contraddistingue abitualmente. Di giorno il traffico intasa Boulevard Bil Clinton e le altre arterie che portano al centro della città. La copia della statua della Libertà, postasopral’HotelVictoryvicino a una grande rotonda cittadina, osserva impassibile la frenesia con cui uomini e mezzi si muovono . Impossibile non notare la miriade di fuoristrada che si susseguono incessantemente. Sono delle organizzazioni internazionali e non governative massiccia-mente presenti sul territorio. Gli oltre 2 mila uomini dell’Unione europea provano a costruire uno “stato di diritto”, come dice il nome stesso della missione, “Eulex”. Accanto a loro operano tante altre organizzazioni, a cominciare dalle Nazioni Unite, in una giostra umanitaria che non ha paragoni storici in un Paese grande più o meno come l’Abruzzo e che orastacercandodiricrearelapropria identità a partire dai bombardamenti del ‘99, magari saccheggiando dalle culture degli stati che l’hanno “liberato”. Stati Uniti in testa.
L’indipendenza che
Berlgado non accetta
NONÈFACILEvivereaPristina per un kosovaro-serbo. Solo la segnaletica stradale – lascito dell’interregno delle Nazione Unite – è bilingue. Anche nella principale libreria della città non si trova un libro in serbo.L’indipendenza del Kosovo, proclamata nel febbraio 2008, è stata finora riconosciuta da 69 paesi, Italia compresa. Tuttavia Belgrado continua a rifiutarsi di riconoscere Pristina. Il mese scorso la Corte internazionale di giustizia ha riconosciuto la legittimità dell’indipendenza che, a suo avviso, non viola il diritto internazionale. Ma proprio ieri la Serbia ha reso noto che l’Assemblea generale dell’Onu ha intenzione di discutere, il 9 settembre, la risoluzione sul Kosovo presentata da Belgrado il 28 luglio, dopo la decisione dell’Aja. Nella risoluzione Belgrado ribadisce il no all’indipendenza del Paese, ma lancia un appello al dialogo sui processi futuri relativi al Kosovo. “L’impressione è che le forze internazionali facciano ottime cose, ma spesso non diano gli strumenti per portarle avanti concretamente, sul territorio e a livello locale” dice Igli. “Non sono state capaci di creare veri processi di rafforzamento degli organismi locali. Così tutti si sono abituati a ricevere aiuti”.
Sventola la bandiera
americana
ILKOSOVOèunPaeseinmezzo al guado, ancora da costruire. E la cosa si può vedere anche per le strade che portano alle principali città. La strada per Peja/Pec è un grande cantiere. Ovunque ci sono case in costruzione, frutto del lavoro di imprese internazionali e delle rimesse provenienti dalla diaspora kosovara. La bandiera del nuovo stato sventola dappertutto,mavivediunfortecomplesso: non riesce mai a stare da sola. È affiancata quasi sempre dall’aquila a due teste albanese, dalla bandiera a stelle e strisce statunitense o da qualche altro vessillo di un paese Nato. Ma Hashim Thaçi , attuale premier kosovaro, ha deciso di vietare temporaneamente le visite in Kosovo di esponenti politici serbi. Le autorità di Pristina vogliono evitare che i politici serbi cerchino di incrementare il controllo e l’influenza sulla minoranza. Un’ulteriore prova che le tensioni sono lontane dall’essere finite e questo è palpabile in varie parti del Paese. Oltre venti edifici ortodossi continuano a essere presidiati dalla Kfor, la missione della Nato presente da dopo l’intervento armato. “Adesso la situazione è tranquilla, anche se non sappiamo come possono evolversi le cose nei prossimi mesi” mi dice un militare italiano di guardia al Patriarcato ortodosso di Peja/Pec. Qui gli ortodossi serbi nominano il proprio patriarca. Ora sono asserragliati dentro l’area conventuale e i pullmandeifedelicheliraggiungono dalla Serbia vengono scortati dalle forze internazionali.
Mitrovica, simbolo di
tutte le enclavi
LA SITUAZIONE più problematica per la minoranza serba rimane sempre quella di Mitrovica, città simbolo della divisione, a soli 40 minuti di auto a nord di Pristina. Qui capita di rado ai kosovari-albanesi di andare a cena in un locale serbo, anche se nella parte sud della città la popolazionekosovara-albanesepopolaibar all’aperto delle poche vie pedonali. La divisione è palpabile passeggiando sul fiume Ibar che divide in due la città ed è costantemente monitorato dalla Kfor. Passare il ponte verso nord vuol dire parlare serbo e pagare in dinari all’ombra di bandiere e manifesti elettorali serbi. La regione di Mitrovica a nord dell’Ibar è pronta a riabbracciareBelgrado,maililministro dell’interno kosovaro, Bajram Rexhepi, la pensa diversamente, come ha dichiarato nei giorni scorsi: “Di sicuro, chiunque dovesse appoggiare l’eventuale indipendenza del nord verrà arrestato”. “I giovani kosovari-albanesi e serbi che si parlano scoprono di avere in comune molto più di quanto pensassero, a cominciare dalla voglia di andare via per avere una vita migliore” mi spiega un giovane operatore non-goverantivo italiano che lavora a progetti di dialogo in un piccolo villaggio di minoranza serba. Anche la disoccupazionegiovanileinfattitoccatrasversalmente circa una persona su due, albanesi o serbi che siano. E lascia poche speranze a chi ha trent’anni. Facendoli sentire come quel burattino in una gabbia che qualcuno ha disegnato sul muro di un ristorante.