Luca D’Ammando, varie, 24 agosto 2010
La vicenda dei tre operai Fiat licenziati e poi reintegrati, che ieri sono tornati nello stabilimento di Melfi (Potenza) ma non hanno potuto riprendere il lavoro, inizia il 7 luglio
La vicenda dei tre operai Fiat licenziati e poi reintegrati, che ieri sono tornati nello stabilimento di Melfi (Potenza) ma non hanno potuto riprendere il lavoro, inizia il 7 luglio. Per quel giorno la Fiom ha organizzato un corteo interno nella fabbrica lucana a cui partecipano una cinquantina di operai sui 1.750 totali. Si contesta l’accordo di Pomigliano, che prevede 18 turni settimanali, comprensivi se necessario del sabato e della domenica, e che è stato formulato dall’azienda torinese volutamente in deroga al contratto nazionale di lavoro. Durante lo sciopero viene bloccato un carrello robotizzato che rifornisce le linee di montaggio. La catena lavorativa si inceppa e anche chi aveva deciso di lavorare è costretto a fermarsi. Due giorni dopo la Fiat licenzia tre operai, Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, colpevoli, secondo l’azienda, di aver deliberatamente bloccato il carrello. I lavoratori si difendono dicendo che è stato solo un incidente e non c’è stata volontarietà. Va detto che due dei tre operai licenziati, Barozzino e Lamorte, sono delegati sindacali Fiom-Cgil. Il 9 agosto il giudice del lavoro di Melfi Emilio Mirro reintegra i tre operai. Per Mirro il carrello potrebbe essere stato bloccato per sbaglio. Il licenziamento in questo caso sarebbe una misura eccessiva, sarebbe bastata una semplice sospensione di qualche giorno. La Fiat presenta ricorso al Tribunale il 20 agosto e il giorno seguente invia un telegramma ai tre in cui comunica loro che riceveranno regolarmente lo stipendio fino al 6 ottobre (data in cui è fissata l’udienza), invitandoli però a non presentarsi in fabbrica alla riapertura lunedì 23 agosto in quanto l’azienda «non intende avvalersi delle loro prestazioni». Ieri i tre operai si sono presentati al cancello B dello stabilimento di Melfi alle 13.30 per il turno delle 14. Li accompagnavano l’ufficiale giudiziario, i carabinieri, il responsabile auto della Fiom Enzo Masini e un legale. Ad attenderli al di là del cancello alcuni dirigenti Fiat, a loro volta assistiti dai legali. Quando alle 13.36 i tre varcano i tornelli, vengono invitati dai sorveglianti a trasferirsi in una sala della portineria. I rappresentanti dell’azienda spiegano che non possono raggiungere il posto di lavoro, ma solo accomodarsi nella saletta sindacale. Dopo quasi due ore di discussioni e schermaglie procedurali, gli operai lasciano la fabbrica. «Rivoglio il mio posto di lavoro e mi presenterò tutti i giorni ai cancelli della Fiat fino a quando mi faranno tornare alla mia postazione. Non sono un parassita, voglio guadagnarmi il pane come ogni padre di famiglia», ha detto Giovanni Barozzino. Intanto la Fiom ha indetto un’ora di sciopero, dalle 14 alle 15, a cui partecipano circa 200 operai (secondo il sindacato molti di più, secondo la Fiat solo il 5%, una settantina). Più tardi si svolge un corteo interno con una maggiore partecipazione. In serata la Fiom denuncia il Lingotto per violazione dell’articolo 650 del codice penale: mancata osservanza dei decreti del giudice. Lino Grosso, avvocato del collegio di difesa sindacale: «Stiamo ipotizzando anche la denuncia della Fiat per mobbing nei confronti dei tre operai». La Fiat, attraverso i suoi legali fa sapere che «la Fiat Sata di Melfi, fiduciosa che il Tribunale di Melfi, nel giudizio di opposizione, saprà ristabilire la verità dei fatti, ribadisce la ferma convinzione che siano pienamente legittimi i provvedimenti adottati nei confronti dei tre lavoratori». Il Lingotto ricorda poi che a carico dei tre lavoratori «è in corso anche un’indagine penale da parte della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Melfi» . Inoltre «la decisione di non avvalersi della sola prestazione di attività lavorativa dei tre interessati, che costituisce prassi consolidata nelle cause di lavoro e che ha l’obiettivo di evitare ulteriori occasioni di lite tra le parti in causa, trova, nel caso specifico, ampia e giustificata motivazione nei comportamenti contestati che, in attesa del completarsi degli accertamenti processuali, si riflettono negativamente sul rapporto fiduciario fra azienda e lavoratori». I tre operai hanno fatto sapere che scriveranno una lettera aperta al presidente della Repubblica: «Gli chiederemo – dice Barozzino – di fare rispettare la sentenza e di non farci vegognare di essere italiani». Sul piano legale la vicende è intricata. Il mancato ritorno dei tre al loro posto di lavoro sembra un punto a favore del sindacato: dal 1987 (con la sentenza n.7733) la Cassazione intende il reintegro come rientro nel ciclo produttivo. Su questa linea è anche il giuslavorista Pietro Ichino, che appoggia la linea di Marchionne ma non condivide la mossa sui lavoratori di Melfi: «Già la scelta del licenziamento, in un caso in cui avrebbe potuto adottarsi anche una sospensione disciplinare, ha l’effetto di radicalizzare lo scontro; ora non si comprende davvero la necessità dell’ulteriore inasprimento conseguente alla scelta di ottemperare in modo cavilloso all’ordine provvisorio del giudice. Le stesse Cisl e Uil, che in questa vicenda appoggiano il piano industriale di Marchionne, sono messe in difficoltà da questa scelta dell’azienda». In effetti Raffaele Bonanni, segretario della Cisl ha invitato Marchionne a «non cadere nella trappola della Fiom che alimenta la confusione per spostare l’attenzione dal vero nodo che è l’investimento sugli stabilimenti italiani. Talvolta la Fiat è il rovescio della Fiom: il giudice ha emesso una sentenza e la sentenza si applica». Di parere opposto, tra gli altri, il giornalista Nicola Porro che sul Giornale contesta la sentenza emessa dal giudice di Melfi: «La storia dei tre di Melfi che oggi riempie le pagine dei giornali, negli ultimi trent’anni ha riempito le scatole di tutti gli imprenditori italiani. Vorremmo ricevere una (intesa come singola, unica, solitaria) lettera di un imprenditore che si sia visto riconoscere come legittimo un suo licenziamento per giusta causa da un magistrato in primo grado. In Italia non solo non si può licenziare (parliamo di imprese con più di quindici dipendenti), ma è anche possibile rubare in azienda, senza che ciò cagioni una sana pedata nel posteriore». Al di là di come andrà il ricorso, la linea seguita dalla Fiat in questa vicenda è chiara: il Lingotto vuole produrre senza problemi le sue vetture a Pomigliano e in tutti gli altri stabilimenti italiani, e desidera sconfiggere in modo definitivo la logica del conflitto permanente in fabbrica. Se poi perderà questo scontro, avrà una motivazione forte per sostenere che in Italia non si può lavorare e che è meglio aprire stabilimenti in Polonia, Serbia o negli Stati Uniti. Chiara anche la linea della Fiom: la vera peste per i lavoratori sono i contratti flessibili che si stipulano fabbrica per fabbrica, o azienda per azienda. È necessario tornare invece al contratto nazionale, cioè alla contrattazione centralizzata che restituisce al sindacato nazionale e alle sue articolazioni tutto il potere che ne giustifica la sopravvivenza.