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 2010  agosto 24 Martedì calendario

PERCHÉ È LIBERALE RIFIUTARE LA MOSCHEA

Il dibattito sulla moschea e sul centro culturale islamico, Cordoba House, nelle immediate vicinanze di Ground Zero, non sembra destinato a esaurirsi tanto presto. Se continua a divampare sulle due rive dell’Atlantico è perché investe problemi di etica pubblica che toccano i nervi scoperti di quella ideologia pluralista che sembra (purtroppo) essere diventata il senso comune dell’Occidente.
Mai come in questa occasione si scopre che il linguaggio della democrazia liberale sta diventando il cavallo di Troia che consente alle concezioni del mondo sconfitte dalla modernità di tornare in vita. Da una parte, infatti, gli eredi del Sillabo e i paladini della Tradizione scambiano il principio di reciprocità, che presiede alla logica del contratto privato tra singoli individui, con la legge del taglione che regola i rapporti tra le tribù; dall’altra, i pronipoti di Robespierre e di Lenin conducono le loro battaglie inalberando “diritti universali” che, in pratica e in teoria, sottraggono al gioco democratico le questioni più spinose con cui debbono fare i conti le società contemporanee: essi vogliono ignorare che il gioco diventa bello quando dalle parole si passa ai fatti, quelli imposti dalle urne.
Chiesa alla Mecca
Dire, come fanno molti, che non ci dev’essere una moschea a Milano finché non ci sarà una Chiesa a La Mecca significa che la libertà di pregare in un luogo pubblico non è un diritto che concerne gli uomini in quanto tali ma i fedeli di una confessione religiosa. Come nella Firenze di Dante, si è cittadini solo in quanto si appartiene a una corporazione. In base a questa filosofia, se, per ipotesi, Riyad ci concedesse la costruzione di una cattedrale, ce ne dovremmo stare tranquilli e soddisfatti, anche se un’analoga concessione fosse negata a una sinagoga o a un tempio buddista o massonico.
Ma non meno assurda è la pretesa di far prevalere, sempre e comunque, le ragioni del diritto su quelle della politica. Poiché la libertà religiosa è un diritto indisponibile, per i Gad Lerner & C., negarla a quanti chiedono la moschea nell’area di Ground Zero, significherebbe alimentare il pregiudizio etnico e culturale, rinnegare le nostre radici cristiane e illuministiche, tradire il pluralismo etc.
Sennonché, se è vero che la libertà religiosa è un diritto indisponibile, è altrettanto innegabile che non ci sono diritti assoluti e che l’esercizio dei diritti va sempre regolamentato, in base al principio del neminem ledere ovvero al divieto di recar danno ad altri. Nessuno può impedirmi, a casa mia, di suonare la tromba o di ascoltare la radio ma se il volume troppo alto disturba i vicini, la mia libertà di suonatore e di ascoltatore viene ad essere necessariamente limitata e con essa il godimento relativo (sentire un concerto a tutto volume mi darebbe l’illusione di trovarmi a teatro in prima fila ma è un piacere al quale sono costretto a rinunciare dai diritti degli altri).
In questi ultimi tempi, sta venendo alla luce l’incompatibilità radicale tra la democrazia liberale e le sue contraffazioni. Sia la destra tradizionalista che la sinistra sembrano non rassegnarsi al fatto che l’etica e la politica sono «senza verità»: non ci sono leggi emanate da Dio o iscritte nella natura o dettate dalla Ragione che siano in grado di prescrivere infallibilmente questo o quell’agire politico, di sostenere questa o quella legge, questa o quella misura governativa.
Tutte opinioni
Il vecchio Platone lamentava che le decisioni collettive si fondassero sull’opinione (la doxa) e non sulla verità (l’aletheia) ma, se così non fosse, che senso avrebbe la democrazia liberale? Il governo della cosa pubblica, infatti, dovrebbe venir affidato, nei vari casi, ai ministri di Dio, che conoscono i piani dell’Onnipotente, ai philosophes che sanno cosa detta la Raison, al partito unico, le cui vele sono mosse dal vento del Progresso.
Il fatto è che, in questa malinconica valle di lacrime, in cui ci tocca stare, ogni soluzione data a un problema di convivenza sociale è «opinione». L’infallibilità è solo dei pontefici romani e la giustezza di qualsiasi decisione politica, economica e culturale resta sempre problematica. Vedendo alla tv i cortei newyorkesi dei favorevoli e dei contrari alla Moschea a Ground Zero non si ha la sensazione di trovarsi dinanzi a una ragione e a un torto ma dinanzi a due diverse ragioni tra le quali tocca alla democrazia dover scegliere. Ma a una democrazia presa sul serio e non degradata a tirannia della maggioranza qualora le urne non ci facciano vincere.
Ciò non significa affatto astenersi dal motivare quanto ci sta a cuore o rinunciare a congetture ragionevoli sulle conseguenze prevedibili di una strategia politica. Si possono desacralizzare i simboli di una vecchia identità collettiva per indossarne una nuova ma bisogna essere consapevoli dei prezzi da pagare.
Si può pensare che la controversa moschea di Ground Zero, con la sua forte valenza simbolica, preluda a una auspicabile trasformazione profonda dell’american culture, promuovendo l’islam a sua componente fondamentale, ma si può anche ritenere che essa segni la fine di un mondo, di idealità e di valori irrinunciabili.
È vietato essere conservatori? È un delitto voler fermare la corsa precipitosa del tempo? La vera colpa storica dell’Illuminismo non sta nell’aver abbattuto le statue dei vecchi ma nell’aver sostituito ad esse la statua di una divinità, per certi aspetti, ben più esigente, il Progresso. Grazie al ricatto delle magnifiche sorti e progressive è una colpa essere conservatori, voler preservare, quanto più è possibile, il nostro patrimonio culturale, i paesaggi, le case, le vie, le piazze della nostra identità collettiva: se gli altri non vogliono il crocifisso in classe, non siamo più noi a doverci pronunciare magari contando le teste in un referendum che potremmo anche perdere ma è il magistrato, che sentenzia la rimozione in nome di un Diritto, che non conosce limiti né ragioni di opportunità. Né democrazia.