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 2008  agosto 24 Domenica calendario

SPARANO SU MONDADORI MA NON LA MOLLANO

La risposta più eloquente con tutta la durezza e la verità del linguaggio popolare viene da Antonio Pennacchi, fresco vincitore del premio Strega e da sempre autore Mondadori: «È mia precisa intenzione cercare Ricky Cavallero, il direttore generale, e chiedergli di cacciare Vito Mancuso a calci nel culo».
Lo sfogo di Pennacchi al telefono con Libero è la voce del risentimento contro l’impegnato da salotto, quale è il teologo di grido Mancuso (autore e consulente Mondadori), che da qualche giorno si fa portavoce di una battaglia contro la “sua” azienda. La diatriba è iniziata sabato scorso su Repubblica, giornale che da qualche tempo ospita gli editoriali del professore. Il quale si è detto straziato da un dubbio terribile: come faccio a pubblicare con la casa di Segrate se questa non paga al fisco quanto dovrebbe? La domanda lacerante si basa su un articolo di Massimo Giannini secondo cui l’azienda presieduta da Marina Berlusconi usufruirebbe di una legge ad aziendam che le consentirebbe di elargire allo Stato «solo una minima parte (8,6 milioni versati) di un antico ed enorme debito (350 milioni dovuti)».
LA REPLICA
Mondadori, domenica, ha risposto spiegando che non c’è niente di illecito nei suoi comportamenti. Ma al teologo non è bastato e ieri è tornato alla carica, ripetendo che le argomentazioni del suo editore non l’hanno soddisfatto. E implicitamente rinnovando l’invito a lasciare Segrate ai suoi compagni di scuderia. Il buon Vito, infatti, ha sostenuto che tutti gli altri scrittori e giornalisti che firmano su Repubblica dovrebbero porsi i suoi stessi dubbi riguardo alla casa editrice di Marina Berlusconi. Ne ha fatto anche i nomi, Roberto Saviano in testa. Poi Eugenio Scalfari, Corrado Augias, Pietro Citati, Federico Rampini, Piergiorgio Odifreddi, Michela Marzano. Infine gli autori Einaudi (storico marchio che fa parte della galassia Mondadori) come Eugenio Scalfari, Gustavo Zagrebelsky, Adriano Prosperi...
I colleghi chiamati in causa hanno risposto, ma con una sonora pernacchia: da Mondadori e Einaudi non ce ne andiamo. A questo punto non si capisce se sia più ridicola la figura che rimedia Mancuso o quello che fanno i suoi colleghi “de sinistra”. I quali, dopo aver spiegato di essere ben intenzionati a restare dove sono, precisano che a loro, però, Berlusconi fa proprio schifo. Ecco Carlo Lucarelli: «Premesso che la legge ad aziendam è un fatto gravissimo, è uno dei tanti contro cui stiamo combattendo dall’interno. Penso che a tutti noi sembri una porcata e ci sto anche, a sentirmi un po’ male a lavorare lì, ma dovrebbe sentirsi male tutta l’Italia per aver votato quell’uomo e il conflitto di interessi che si porta
dietro». Povero Carletto, lui ci sta tanto male. Forse il suo dolore si attenua nel vedere come Mondadori lo tratta. Perché la verità e il motivo che tiene inchiodati gli autori alla sedia è che a Segrate si sta bene. Pagamenti puntuali, uffici stampa efficienti, anticipi consistenti. Lavorare con Mondadori è una garanzia. Non solo perché si trovano alcuni dei migliori editor in circolazione (su tutti Antonio Franchini, quello che ha scovato Paolo Giordano, per dire), ma anche perché si ottiene un ottimo trattamento economico.
Nei negozi i libri Mondadori hanno una distribuzione straordinaria, lo spazio sui giornali è garantito quasi per tutti gli scrittori. Quelli di Segrate sono gli unici, attualmente, in grado di creare un caso letterario dal nulla. Senza Mondadori (che ha scovato il titolo, ideato la copertina, pompato il tutto) Gomorra avrebbe venduto 12 copie. Idem La solitudine dei numeri primi.
CHE VERGOGNA
Dunque si resta, ma bisogna dire che Silvio fa schifo e vergognarsi un po’ come fa Mancuso. Il quale, da teologo, si trova singolarmente d’accordo col mangiapreti Odifreddi, secondo cui il Cavaliere è «un delinquente», ma dalla sua azienda non si sposta di un metro. Quanto a Corrado Augias (che con Mancuso ha scritto un saggio a quattro mani), dice che chiederà il parere dei suoi lettori al festival di Mantova. Nel frattempo, forse, si vergogna anche lui (si vergognava meno quando venne fuori che nel suo ultimo libro aveva plagiato un autore Adelphi, ma son dettagli).
Mancuso si è pigliato anche lo schiaffetto del suo ex mentore Giuliano Ferrara, che lo ospitò sul Foglio (allora scrivere per un giornale berlusconiano, sostenuto da Veronica Berlusconi e pure da Denis Verdini non gli causava dolori) e ieri gli ha ricordato una piccola contraddizione: lavora per l’università San Raffaele, «capoluogo morale di un vasto impero commerciale e sanitario il cui scopo precipuo è far vivere 120 anni almeno Berlusconi», l’uomo della provvidenza secondo Don Verzè.
In tutta questa ipocrisia, suona quasi salutare la sincerità proletaria di Pennacchi: «A me de Berlusconi non me ne frega un cazzo. Anzi, prima se ne va meglio è. Ma nessuno deve venirmi a dare lezioni di lotta, io ho fatto il sindacalista e sono stato in fabbrica. Mancuso se ne deve andare a quel paese, perché ha offeso me, non Berlusconi. Mi offende perché con i suoi turbamenti mette sotto processo anche me che i turbamenti non ce li ho. Mica lo andavano a dire, agli operai, di licenziarsi perché il loro padrone non era comunista. Io sono marxista, leninista e stalinista. Dovrei andare alla Rcs da Paolo Mieli? Perché là, secondo Mancuso, sono nordcoreani, marxisti e stalinisti?».