Camillo Langone, Libero 22/8/2010, 22 agosto 2010
I RISTORANTI BRUTTI CI TOLGONO LA FAME
Stasera al Meeting di Rimini dovrei parlare di cibo e bellezza ma siccome sono dispettoso, bastiancontrario e snob mi sa che parlerò di cibo e bruttezza. Con la bellezza si rischia sempre di essere un po’ astratti, con la bruttezza non c’è questo pericolo, si possono fare molti esempi concreti fornendo così un vero servizio all’amico lettore (o ascoltatore). Se la bellezza è una promessa di felicità, come diceva Stendhal, la bruttezza non può che annunciare dispiaceri e infatti in un ristorante squallido difficilmente si mangia bene.
E in un caffè con le tovaglie macchiate e i tavolini traballanti come sarà l’Americano che avete ordinato? Ovviamente caldo e annacquato, come quello che nei giorni dell’ultima fiera del libro ho bevuto al Baratti&Milano, storico locale torinese immortalato in una poesia di Guido Gozzano.
Sulle città d’arte italiane pesa una maledizione: più un caffè ha un passato e meno ha un presente, più pagine sono state scritte sui suoi tavolini e meno pensieri può ispirare oggi. Quest’estate un cameriere delle Giubbe Rosse ha cercato di adescarmi «Cappuccino, mister?» invitandomi con gesto ruffiano nell’osceno tendone plastico che al tempo di Papini Prezzolini Palazzeschi Soffici certamente non esisteva. Mi aveva scambiato per un turista appena atterrato, ignaro di tutto, l’unico cliente possibile per i troppo celebrati locali di piazza della Repubblica a Firenze.
Ma parlando di cibo mi tocca parlare soprattutto di ristoranti. I ristoranti italiani sono brutti e Michela Vittoria Brambilla se davvero volesse rilanciare un turismo di qualità, un Grand Tour del Bello e del Buono, dovrebbe preoccuparsi meno delle cucce dei cani e impegnarsi per dare un buon tavolo ai cristiani.
Nomi anglofoni
La bruttezza comincia dai nomi, spesso anglofoni e quindi umilianti la nostra lingua oppure dozzinali: avete notato che esiste una trattoria Antichi Sapori in ogni provincia italiana? E che i Perbacco sono quasi più numerosi dei MacDonald’s? Fra le insegne più sciattamente seriali anche La Volpe e l’Uva e L’Angolo Divino: curioso che proprio il vino, che nei poeti da Orazio a Baudelaire suscitava immagini sempre nuove, ai nostri osti inibisca totalmente la fantasia. Una volta passati sotto la capottina ex-bianca, quella tenda di plastica grigio-smog che ripara l’ingresso di ogni brutto ristorante che si rispetti, si entra in una sala col pavimento brutto (fredde piastrelle di Sassuolo buttate di traverso), le tovaglie brutte (color metallizzato o rosa-pizzeria), i fiori brutti (finti o rinsecchiti), ma specialmente le pareti brutte.
Non sono mai stato da Aimo e Nadia, a Milano, e non perché mi hanno detto che ci si mangia male (tutt’altro!) ma perché i quadri che ho visto sul loro sito internet mai e poi mai vorrei subirli da vicino. Lo stile è un Action Painting che confina con l’Action Vomiting, e se mangio bene però subito dopo devo correre in bagno non sto passando una bella serata.
Non penso di tornare da Lorenzo a Forte dei Marmi, la cui cucina mi ha lasciato indifferente ma le cui pareti mi hanno profondamente colpito. Fra le molte opere di cosiddetta arte c’era un altorilievo piuttosto erotico: impossibile concentrarsi sul cibo o sulla conversazione con quel culo metallico davanti agli occhi. Comunque l’inquinamento visivo, il brutto che fa male all’anima, oggi è soprattutto al plasma e fuoriesce dagli schermi che impestano i locali di ogni ordine e grado, anche elevato (ma al Trussardi Café, in piazza della Scala, grazie a Dio li hanno tolti e speriamo sia l’alba di una nuova tendenza).
In Piazza Garibaldi a Parma non posso più sedermi, tutti i caffè sono tappezzati di schermi e io che a casa non guardo la televisione (sono uno snob marcio, vi ricordate?) sarei obbligato a sorbirmela assieme al chinotto o al gin tonic. Una volta, per un disguido, sono finito all’Orientale con Aldo Grasso, lui per deformazione professionale e io per impossibilità di guardare altrove abbiamo sprecato la serata ipnotizzati da telegiornali, pubblicità e partite di calcio. Siccome questi ambienti inquinati sono spesso anche affollati bisogna dar ragione a John Armstrong: «Peggiore è una persona, più questa si sentirà a suo agio nella bruttezza». Una frase meravigliosa (scoperta in un croccante libro Guanda intitolato Il potere segreto della bellezza) capace di accrescere la mia già non piccola autostima: siccome mi sento a disagio nella bruttezza sono senza dubbio una persona migliore.
Una speranza
A questo punto, dopo un elenco di orrori estetico-gastronomici che poteva essere molto più lungo, mi viene un dubbio: è giusto, stasera a Rimini, scaraventare addosso ai ragazzi di Comunione e Liberazione tutte queste cattive vibrazioni? Ai giovani (e non solo a loro) bisogna presentare una speranza: ma la speranza, nell’ex Bel Paese dove l’ok suona, dove la vado a pescare? Ecco, forse ho trovato.
Nell’Italia mangereccia la bellezza è nascosta, segreta, la si può trovare nelle case private dove si gustano cibi e vini veri fra pochi amici. Ingredienti perfetti, bicchieri giusti, televisione spenta (o ancor meglio inesistente), e a fine serata si è perfino liberi di accendersi un sigaro. La dolcezza del vivere è a portata di mano.