Andrea Brenta, Italiaoggi 24/8/2010, 24 agosto 2010
CINA, AZIENDE ENERGIVORE ALLA BERLINA
La Cina mette alla berlina le sue imprese troppo energivore.
Lo scorso 15 agosto il ministero dell’industria ha pubblicato sul proprio sito internet una lista di 2.087 fabbriche di 18 settori (per lo più metallurgia, cemento, cartario) alle quali è stato ingiunto di interrompere, entro la fine del prossimo settembre, lo sfruttamento dei mezzi di produzione arretrati, pena il ritiro delle licenze, il rifiuto a concedere prestiti o il taglio dell’elettricità.
Alcune province, tenute a rispettare le quote imposte da Pechino, non hanno dovuto attendere lo scadere di questo ultimatum.
«La mattina del 15 agosto l’elettricità è stata tagliata per un mese senza alcun preavviso», lamenta Li Chuncai, responsabile del settore logistico nel cementificio Zhongcheng di Huaibei, nella provincia dell’Anhui, dove altre 506 fabbriche hanno avuto una sorte analoga. «Fino a ora», continua l’uomo, «nessuno ci aveva mosso alcun rimprovero e avevamo anche l’autorizzazione del dipartimento dell’ambiente».
Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia, nel 2009 la Cina è diventata il primo consumatore mondiale di energia, davanti agli Stati Uniti.
Il carbone, combustibile fossile tra i più inquinanti, copre il 70% dei bisogni del paese. La repubblica popolare si è impegnata, nel suo undicesimo piano quinquennale, a ridurre del 20% tra il 2005 e il 2010 la sua intensità energetica, ovvero il rapporto tra il consumo di energia e la grandezza di un’economia. Un programma che ha conosciuto alti e bassi. L’adozione nel 2008 del piano di rilancio dell’economia cinese da 4 mila miliardi di yuan (circa 464 miliardi di euro), un piano consacrato soprattutto alle infrastrutture, ha spinto a riaprire forni da cemento vetusti e ad aumentare la produzione delle industrie metallurgiche. Così, alla fine del 2009 l’economia cinese aveva ridotto solo del 14,4% la sua intensità energetica.
Lo scorso 5 maggio il primo ministro Wen Jiabao ha promesso di usare il pugno di ferro per far sì che l’impegno venga rispettato. Ma tutto ciò ha un costo sociale notevole. «La chiusura delle fabbriche è evidentemente il mezzo più efficace di arrivare a risultati sicuri a breve termine», spiega Yang Ailun, responsabile delle questioni climatiche ed energetiche di Greenpeace in Cina, «ma noi incoraggiamo il governo ad adottare incentivi durevoli piuttosto che imporre chiusure amministrative».
Intanto nel cementificio di Huaibei le preoccupazioni dei dirigenti sono di tutt’altro genere. Questo mese i salari dei 700 dipendenti saranno drasticamente ridotti.