Nicola Porro, il Giornale 23/8/2010, pagina 1, 23 agosto 2010
Nella vicenda Fiat sabotato il buon senso - Leggete questa storia. Ma cercate di mantenere i nervi saldi, perché c’è materia da innervosire un santo
Nella vicenda Fiat sabotato il buon senso - Leggete questa storia. Ma cercate di mantenere i nervi saldi, perché c’è materia da innervosire un santo. A inizio luglio viene indetto uno sciopero nella fabbrica Fiat di Melfi. Su 1.750 dipendenti, più o meno cinquanta si astengono dal lavoro. Tra di loro ci sono tre operai, di cui due sindacalisti attivi, che impediscono agli altri di lavorare: lo fanno bloccando un carrello robotizzato che portava materiali ad altri operai che non avevano la minima intenzione di incrociare le braccia. La fabbrica ovviamente si inceppa: nonostante solo una minima parte dei lavoratori volesse protestare. A metà luglio la Fiat prende carta e penna e licenzia i tre operai, colpevoli secondo la ditta, di aver sabotato il lavoro di 1.700 persone. I lavoratori fanno ricorso e un giudice dà loro ragione. È un magistrato del lavoro che allo stesso tempo riesce a compiere due miracoli: in sole due settimane scrive un’ordinanza che impone l’immediato reintegro dei tre operai in azienda e in un solo istante smentisce la proverbiale lentezza della nostra giustizia. Il magistrato (un tempo si chiamavano pretori del lavoro) non può appurare l’effettiva esistenza del sabotaggio (come egli più o meno scrive), ma è in grado di giudicare antisindacale il comportamento della Fiat e dunque parte l’immediato reintegro dei dipendenti ingiustamente liquidati. La storia non finisce qua. La Fiat ovviamente non può fare altro che chinare il capo e ci mancherebbe altro: è una sentenza di un magistrato. Restituisce lo status giuridico ai tre dipendenti, ma pretende che non mettano più piede là, vicino ai quei robot che l’azienda sostiene abbiano sabotato. Insomma li paga, ma non per lavorare. Vengano pure in azienda, timbrino il loro cartellino, ma rimangano confinati nella saletta sindacale. Apriti cielo. Si viola un diritto democratico e blabla. Viene abbastanza naturale inserire la querelle nello scontro che si trascina da mesi tra la dirigenza Fiat e i sindacati, tra Marchionne, un tempo idolo della sinistra, e il pool dei duri e puri della Fiom. Ma non è così. Se permettete, in questo caso, della Fiat importa un fico secco. E men che meno degli attori specifici di questa vicenda. Il sangue al cervello ci arriva perché la storia dei Tre di Melfi che oggi riempie le pagine dei giornali, negli ultimi trent’anni ha riempito le scatole di tutti gli imprenditori italiani. Vorremmo ricevere una (intesa come singola, unica, solitaria) lettera di un imprenditore che si sia visto riconoscere come legittimo un suo licenziamento per giusta causa da un magistrato del lavoro in primo grado. In Italia non solo non si può licenziare ( parliamo di imprese con più di quindici dipendenti), ma è anche possibile rubare in azienda, senza che ciò cagioni una sana pedata nel posteriore. Qualche anno fa la polizia filmò grazie a delle telecamere una serie di dipendenti degli aeroporti di Malpensa intenti a rubare nei bagagli. Furono subito licenziati. Sennonché un magistrato di Busto Arsizio li reintegrò. Grazie a Dio e all’Enac in quel caso il signore dalla mano lesta non riuscì a rimettere piede vicino ai nastri trasportatori perché gli fu negato il patentino di sicurezza per entrare negli aeroporti. Un escamotage per aggirare la sentenza. Certo poi arriva il secondo grado e nella maggioranza dei casi, il giudice rimette a posto le cose, come nella vicenda Malpensa. Ma il danno è fatto. Le aziende ottengono dai magistrati una velocità da Speedy Gonzales nel caso dei reintegri dei lavoratori ( per Fiat neanche due settimane di istruttoria) e la normale lentezzadella giustizia civile per vedere dibattute le proprie ragioni. Così va il mondo: ma non le aziende. Non la Fiat e non quelle migliaia di imprese italiane che davanti a un magistrato del lavoro hanno torto per definizione. Sia chiaro, la colpa o il merito a seconda dei punti di vista, non è solo dei magistrati. I signori applicano la legge e soprattutto quel principio ottocentesco per il quale essendo il lavoratore contraente e parte debole per legge, diciamo così, si trova su un gradino più alto nella nostra giustizia. È un principio pazzesco per il suo anacronismo. Ogni giorno apriamo milioni di dibattiti sull’etica e sulla sostanza della nostra economia, ma mai abbiamo avuto il coraggio di ragionare sulle conseguenze giuridiche che dovrebbero nascere dal cambiamento del nostro modello produttivo. È finita la fabbrica «taylorista», ma i principi di tutela dei lavoratori sono stati modellati su di essa. Un dipendente contrattualizzato della Fiat ha un milione di tutele in più rispetto a un parasubordinato da quattro euro o un precario a rotazione. I Tre di Melfi ci raccontano non tanto il sabotaggio di un carrello robotizzato, ma il sabotaggio fatto ai danni dei nostri cervelli da trent’anni di leggi sul lavoro pensate per un mondo che non c’è più. E che probabilmente non avevano gran senso neanche quando furono votate.