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 2010  agosto 22 Domenica calendario

Bradbury, un felice inventore di incubi - «Naturale che an­dremo a vivere su Marte. Non per i soliti moti­vi dei catastrofisti: la Terra ghiaccerà, il caldo ci friggerà, non ci sarà più cibo

Bradbury, un felice inventore di incubi - «Naturale che an­dremo a vivere su Marte. Non per i soliti moti­vi dei catastrofisti: la Terra ghiaccerà, il caldo ci friggerà, non ci sarà più cibo. Niente di tutto questo. Ci andremo per­ché, semplicemente, rimane­re sulla Terra sarebbe troppo noioso». Eccolo, è lui, tutto in una battuta. Buon complean­no, Ray. Oggi il leggendario autore di Cronache marziane ( 1950) e di Fahrenheit 451 (1953) compie novant’anni e forse un modo eccentrico ma valido per ren­dergli omaggio è accantonare fin da subito, dopo un’impre­scindibile citazione iniziale, il suo amatissimo pianeta Marte - che lo scrittore non ce ne vo­glia - e dare un’occhiata, inve­ce, al Ray Bradbury mainstre­am e saggista, il meno frequen­tato. Da alcuni critici e lettori fondamentalisti di fantascien­za, il più svalutato. Tuttavia è a questa allegra penna umani­sta che dobbiamo l’invenzio­ne del Paese d’ottobre così co­me lo conosciamo e lo frequen­tiamo. Per definire questo luogo del­l’immaginario contempora­neo nient­e di meglio che le pa­role dello stesso Bradbury mes­se in epigrafe al libro omoni­mo, un’antologia di racconti pubblicata nel 1955: «...paese dell’anno che volge sempre al­la fine. Paese con alture di cali­gine e fiumi di foschia; dove i pomeriggi fuggono, i vespri e gli albori indugiano e le notti ri­mangono. Paese più che altro di cantine, cellieri, carbonaie, soffitte, credenze, sgabuzzini, tutti sul lato opposto del sole. Paese di gente autunnale, con pensieri soltanto autunnali, il cui passo di notte sui marcia­piedi ha suono di pioggia...» Vi suona familiare? Di fatto, senza Bradbury non esistereb­be Stephen King (d’accordo, senza Nathaniel Hawthorne di Muschi di una vecchia cano­nica­e Edgar Allan Poe non esi­sterebbe nemmeno Bradbu­ry, ma non è farla troppo lun­ga? Ci sarebbero, allora, anche Dickens e Mark Twain).Rima­n­e che il Paese d’ottobre di Bra­dbury, con la sua contiguità cli­matica, ma non morale, con il puritano New England del Sei­cento, è stato il luogo d’appun­tamento di moltissimi scrittori e registi di oggi, che in modo più strumentale di Bradbury hanno cavalcato le stesse at­mosfere e gli stessi sentimenti. Ne si può cogliere ancora la traccia persino in Twilight , sa­ga libresca e cinematografica, per non dire in Twin Peaks , di cui ricorrono quest’anno i vent’anni dalla prima puntata. Una volta giunti al Paese d’ot­tobre, si può passarci l’esisten­za, tra questi tramonti che per­pet­uamente scolorano e retro­bottega che, per dirla con Pes­soa, potrebbero bene aprirsi sull’infinito. Se questo è il vo­stro genere, sempre Mondado­ri ha in catalogo, oltre a Paese d’ottobre , anche Addio all’esta­te (romanzo di formazione di un gruppo di ragazzini che ri­fiutano non di crescere, ma di invecchiare), Il popolo dell’au­tunno , Constance contro tutti , Il cimitero dei folli , L’albero di Halloween . Narrazioni di un Bradbury attratto dal metafisi­co, dal noir, dal fantasy, dal po­­liziesco, a un passo da Marte ma con i piedi ben piantati nel­le età della vita umana­ l’adole­scenza su tutte - e spesso in cammino per le strade di Los Angeles (Bradbury, nato nel­­l’Illinois, ci vive da decenni, se­dotto dalla metropoli ma non abbandonato: per i suoi no­vant’anni la città ha organizza­to una settimana intera di fe­steggiamenti). Ma Los Angeles è («che vi piaccia o no», dice Bradbury) Hollywood: e la stella numero 2193 sulla Walk of Fame appar­tiene proprio a Ray. Tributo più che meritato: «Ai vecchi tempi Venice, California, ave­va molto da offrire a chi era in vena di malinconie». Non è la voce di Philip Marlowe, ma il Bradbury di La morte è un affa­re solitario (Fazi), che fa il paio con La follia è una bara di cri­stallo (Rizzoli, purtroppo fuori commercio): due letture ad hoc per gli amanti della Hol­lywood d’oro tra gli anni Venti e i Quaranta, tra le cui pagine fanno capolino persino l’indi­menticabile Erich von Strohe­im e Fritz Lang, nonché attrici che sono il risultato letterario di un perfetto mix la bellezza della Dietrich e l’ humour di Mae West. Un mondo- a tratti struggente - che Bradbury co­nosceva bene, avendo lavora­to negli anni Cinquanta come sceneggiatore (dal suo rappor­to con John Huston in occasio­ne della sceneggiatura di Moby Dick nacque il memoria­le irlandese Verdi ombre, bale­na bianca , pubblicato da Fazi, altro Bradbury non sci-fi ma zuppo di magia). Nel 1966, poi, Bradbury si associò alla storia della settima arte in via definitiva, con l’uscita del film di François Truffaut ricavato da Fahrenheit 451 . E poi c’è Siamo troppo lonta­ni dalla stelle (Mondadori), cioè il Bradbury saggista. È an­cora Ray a tracciare i confini della sua scrittura: «Parecchi avranno sentito parlare del sag­gio familiare, in cui l’autore trae il materiale dalla propria diretta esperienza di vita, ma pochi conoscono il saggio non­­familiare, ovvero quello che ri­chiede un’enormità di lavoro di ricerca e un sacco di sudore. Tutti i testi raccolti in questo li­bro sono saggi familiari. Nella mia vita ne scrissi solo uno non-familiare, non valeva nul­la ». Ad avercene, però, di saggi­sti così «familiari»: pensate al­lo­ stile fintamente disinteressa­to e sornione di Snoopy, il cane dei Peanuts di Schulz (di cui Bradbury è un fan), mentre pi­gramente, col massimo del di­vertimento, in lunghi pomerig­gi alla macchina da scrivere sul tetto della sua cuccia (an­che Bradbury non usa il com­puter, e non ha nemmeno la patente), affronta argomenti come: «Un preziosa vendem­mia », «La balena, la fantasia e me stesso», «Ricordo di libri passati», «Marte: troppo pre­sto fuori dalle caverne, troppo lontani dalle stelle», «Ingresso libero al Cancello del Paradi­so », «Ogni amante dei treni è amico mio», «Disneyland, os­sia il demone disneyano per la felicità». C’è un che del mondo dei cartoons nel pensiero e nella vi­ta di Bradbury: per questo i suoi saggi, come i romanzi, hanno una dimensione che al­cuni trovano troppo giocosa, infantile, ma che invece è mol­to più vicina a quell’essere se­riamente soprappensiero tipi­co del genio. Freddo nei con­fronti di internet, dell’iPad e de­gli smartphones, insofferente dell’eccesso di governo tipico delle società post-capitaliste, Bradbury rimane quell’uomo di cui l’architetto John Jerde, con cui lo scrittore collaborò per numerosi progetti, disse: «È un pazzo. Lancia in aria i confetti per vedere quanti ne può prendere prima che cada­no a terra». Tra tutti gli umani­­sti della fantascienza, da Stani­slaw Lem a Fredric Brown, Bra­dbury rimane il più felice.