Il Sole 24 Ore 21/8/2010;, 21 agosto 2010
BREVETTI CHIUSI IN UNA RISERVA
La piccola e media impresa rischia di rimanere ai margini della ricerca universitaria e delle innovazioni che nascono negli atenei, a loro volta strozzati dalla riduzione dei trasferimenti governativi e privati dalla possibilità di alimentarsi con le rendite delle invenzioni.
La riproposizione del modello della titolarità dei brevetti in capo ai ricercatori contenuta nel nuovo Codice della proprietà industriale – un mancato adeguamento al panorama delle economie avanzate –potrebbe continuare a escludere una vasta platea di aziende dall’accesso ai risultati e alle applicazioni della ricerca. «Mentre la grande industria mantiene un continuo monitoraggio sull’attività dei centri pubblici e privati – dice Manuela Arata, Technology transfer officer del Cnr – e si muove di conseguenza, la piccola impresa rischia di restare fuori dal mercato delle invenzioni, e soprattutto delle loro applicazioni economiche, per semplice mancata conoscenza». Il problema, riproposto dalle immutate norme sui diritti di brevetto, è nel privilegio accordato ai ricercatori di poter registrare a nome e titolo proprio le scoperte: «Un ricercatore – aggiunge Arata –ammesso abbia tempo, know how e risorse per gestire la propria invenzione, difficilmente può far circolare l’informazione, a differenza delle università che hanno possibilità di marketing e di divulgazione mi-rata, e lo fanno molto bene».
In Italia comunque già oggi gli atenei brevettano tanto e con ottime performance, perché la selezione è durissima " grazie" al continuo prosciugamento di risorse pubbliche destinate: le 46 università aderenti al progetto Netval (Rapporto annuale sulla valorizzazione dei risultati della ricerca universitaria) hanno in portafoglio 1949 invenzioni (ultimo dato ufficiale di fine 2008) che rendono, solo in termini di licenze e opzioni, 1 milione 306mila euro l’anno, il 90% dei quali concentrato però nei primi cinque istituti della classifica. «Ma il dato più significativo e che pur non fa graduatoria economica – spiega ancora Manuela Arata –sono le oltre 900 imprese "spin off"nell’ultimo decennio di new technology, costituite cioè su un’applicazione brevettata dalle università. Questo è il risultato economico più rilevante di una rete che funziona, nonostante mille difficoltà». Difficoltà in cima alle quali c’è il sistema di finanziamento, ancora imperniato sui fondi ministeriali e che per questo sta patendo oltremodo la chiusura dei rubinetti. «Nonostante i lusinghieri risultati ottenuti e la costante crescita dell’efficacia delle azioni che le università italiane hanno ottenuto nel trasferire i risultati della ricerca al mercato, la riduzione del finanziamento pubblico al sistema universitario nazionale sta penalizzando proprio le attività di trasferimento tecnologico» dichiara il professor Riccardo Pietrabissa, presidente di Netval.
Nonostante la possibilità di sfruttarne la paternità, i ricercatori comunque faticano a tenere in vita i loro brevetti. Oltre a sobbarcarsi i costi di deposito (da 50 a 600 euro), devono pagare tasse annuali che arrivano fino a 650 euro. A ciò bisogna poi aggiungere la spesa per la consulenza di un professionista esperto che si occupa di scrivere il brevetto, con parcelle mai sotto 1.500 euro. Infine, quando cominciano a guadagnare, devono cedere –in base ai regolamenti d’ateneo – parte degli introiti all’università dove lavorano, percentuali differenti da ateneo ad ateneo (dal 30% preteso di Bologna e dell’Aquila al 40% di Padova, dalla Sapienza di Roma e da quello di Udine, fino al 50% imposto ai ricercatori dalla Bicocca di Milano e dalla Federico II di Napoli).
Forse è il momento di valutare l’opzione americana, dove quasi ovunque vige la regola del terzo: ricercatore, università e laboratorio ( cioè la parte dei campus che si occupa di applicare l’invenzione) si dividono i proventi della scoperta, e hanno l’obbligo di tentare,almeno, di piazzarla sul mercato. Alessandro Galimberti, Francesca Milano • GUADAGNI INVESTITI NEI LABORATORI - S ono le università in America a possedere generalmente la titolarità dei brevetti registrati da un loro ricercatore, una prassi stabilita negli atenei pubblici e privati sin dagli anni ’20. I proventi, invece, vengono divisi tra l’università e l’inventore con formule che variano da ateneo ad ateneo ma che riflettono un principio riconosciuto universalmente nel paese: parte dei proventi vanno ad arricchire infatti il ricercatore, ma una parte ancor più consistente viene reinvestita nella ricerca.
Anzi, con il passare degli anni la percentuale devoluta all’inventore è scesa. Esemplare è il caso dell’University of California, i cui dieci campus (tra cui Berkeley, Los Angeles e San Diego) costituiscono il più grande centro pubblico di ricerca degli Stati Uniti, con un budget di 2,9 miliardi di dollari.
L’adozione ufficiale di una formula di spartizione dei profitti derivanti da un brevetto sviluppato nel corso dell’attività di ricerca finanziata dall’università risale al 1963 e prevedeva una suddivisione al 50% meno il 15% per le spese amministrative; la percentuale devoluta al ricercatore è scesa nel corso degli ultimi cinquant’anni e oggi è pari al 35 per cento.
Analoga è la formula degli atenei privati, anche se alcuni hanno adottato nuovi e creativi espedienti per sfruttare a proprio vantaggio la commercializzazione delle invenzioni sfornate dai loro laboratori di ricerca.
All’università di Stanford, fucina di cervelli e imprenditori high tech della Silicon Valley, l’ateneo in molti casi cede la titolarità del brevetto all’inventore in cambio di una partecipazione azionaria nella società da lui fondata. Il vantaggio per l’ateneo è palese nei casi eclatanti di straordinario successo di una tecnologia, basti pensare al caso Google. Stanford aveva ceduto a Larry Page e Sergei Brin il brevetto del loro algoritmo PageRank in cambio di una quota nell’azienda che oggi ha un valore di mercato di 150 miliardi di dollari.
Anche il governo americano ha deciso di esigere una partecipazione ai profitti derivanti da invenzioni fatte nel corso di progetti di ricerca universitari, ma finanziati da fondi statali provenienti generalmente dal ministero della Difesa o della Sanità. Nel 1980 la legge Bayh-Dole ha stabilito che l’università ha il diritto di mantenere la titolarità di un brevetto ma ha l’obbligo di commercializzare l’invenzione (o almeno tentarci) e di spartire i proventi non solo con l’inventore ma anche con il governo. Daniela Roveda • ALLO SCIENZIATO VA SOLO UNA QUOTA - La prima paga è per lo scienziato, all’università finisce però la fetta più ricca della ricerca. «A Oxford facciamo così – spiega Tom Hackaday amministratore delegato di Isis Innovation, la società controllata all’augusta accademia britannica con il solo scopo di sfruttare il genio di professori e studenti universitari – e lo facciamo con successo da 23 anni» .
In realtà così fan tutti, oltre la Manica. Una struttura analoga è stata adottata anche dall’università di Cambridge e l’esempio s’è diffuso ai maggiori atenei del Regno Unito. Il meccanismo è semplice e si basa su tre principi fondamentali. Il riconoscimento che i diritti della ricerca effettuata nei laboratori appartengono all’università; l’individuazione dei fondi per brevettare e commercializzare la scoperta; le regole per la concessione delle licenze e per la divisione degli utili. «Il compito di Isis – dice Hackaday – è soprattutto legato alla seconda fase. Al reperimento, cioè, del venture capital e degli investitori finanziari capaci di portare i frutti della ricerca sul mercato e trasformare i prototipi in prodotti reali.
Attualmente abbiamo concesso più di 400 licenze per la vendita di prodotti nati nei nostri laboratori. Non solo. Sono state create 55 società con il mandato esclusivo di tradurre la proprietà intellettuale in beni commercializzabili». Allo scienziato va una quota di royalties, in caso di licenze, oppure una quota di azioni nel caso la ricerca abbia portato alla nascita di nuove imprese.
«Le prime 50mila sterline di utili vanno allo scienziato che avrà poi il 30% dei diritti fino a una quota da definire di volta in volta e il 16% sul resto.
All’università – continua Tom Hackaday – tutto il resto». Nel caso di società nate da una scoperta la quota di azioni che spettano al ricercatore sono frutto di trattativa separata.
Il sistema funziona e genera discreti utili. Almeno nel caos di Oxford. Il bilancio di quest’anno in realtà suggerisce piccoli numeri : Isis Innovation, infatti, ha incassato solo 5 milioni dalle royalties. Tom Hackaday ride. «È vero – ammette –, ma deve considerare quanto hanno reso le 55 società messe sul mercato. L’università ha guadagnato decine e decine di milioni di sterline vendendo parte dei titoli e continua ad avere partecipazioni milionarie in tutte le società nate dall’intuito dei suoi studenti e dei suoi docenti». L. Mais. • L’ATENEO CERCA LA VALORIZZAZIONE - All’università ci sono molteplici potenzialità di ricerca scientifica, che rischiano di essere sprecate.
Con queste parole il sito della Humboldt-Universität di Berlino spiega perché è necessaria una protezione normativa nel campo commerciale alle scoperte fatte in ambito universitario.
Senza questa protezione si hanno danni non solo all’economia ma alle stesse possibilità di ricerca futura.
Nell’ordinamento tedesco si hanno due tipi di scoperte, diversamente tutelate, fatte da ricercatori in ambito universitario (equiparati peraltro a quelle degli altri ricercatori al servizio di terzi). Trova quindi applicazione, nel caso del personale universitario, la Arbeitnehmererfindergesetz (ArbEG).
Vengono prese in considerazione le scoperte connesse al lavoro svolto (cosiddette: Diensterfindungen) e quelle "libere" non connesse al servizio svolto presso la struttura universitaria (freien Erfindungen).
Le invenzioni connesse sono quelle che sono svolte durante la durata del rapporto di lavoro, indipendentemente dal fatto che siano avvenute durante il tempo lavorativo, nel tempo libero o in vacanza. Devono inoltre essere il risultato dei compiti svolti all’università o basati sulle esperienze o le attività dell’ente di ricerca.
L’invenzione deve essere comunicata dal ricercatore all’università, in ogni caso, anche se rientra in quelle "libere". In quest’ultimo caso infatti potrebbero porsi delle differenze di interpretazione a proposito del collegamento tra l’attività di ricerca università e quella svolta "in proprio" dal ricercatore.
Quanto alla remunerazione del ricercatore, il sito della Humbolt-Universität precisa che l’importo riconosciuto al ricercatore, equivale circa al 30% del ricavato lordo dello sfruttamento della ricerca.
Fino al 2002 esistevano regole specifiche per il personale docente delle università, che però ora sono state abolite.
Regole specifiche sono poi previste per la protezione dei diritti di creazione di programmi informatici.
Presso l’ufficio brevetti tedesco esiste una camera arbitrale che serve a risolvere i contrasti che insorgono tra datori di lavoro e ricercatori dipendenti in materia di brevetti. La richiesta di intervento dell’organismo è senza costi per gli interessati e la procedura si conclude con una proposta di risoluzione della controversia alle parti.
An. Cr.