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 2010  agosto 21 Sabato calendario

UNIVERSITÀ PIÙ DEBOLI SENZA I BREVETTI

Quando, nel 1923, il Professor Harry Steenbock scoprì il modo di innalzare il livello di vitamina D nel latte, una scoperta cruciale per la sconfitta del rachitismo, allora endemico, si rifiutò di venderla all’industria alimentare nonostante l’offerta principesca di un milione di dollari. Fondò invece la Wisconsin alumni research foundation (Warf), alla quale conferì il brevetto e delegò la commercializzazione: da questa e dalle altre seimila invenzioni brevettate in seguito dai suoi scienziati l’Università del Wisconsin ha raccolto finora quasi un miliardo di dollari, che le hanno consentito di emergere come una delle principali università di ricerca degli Stati Uniti.
Warf è il prototipo degli uffici di technology transfer di cui dispongono oggi tutte le università di ricerca, o meglio ancora delle vere e proprie società controllate il cui compito è quello di consentire la traduzione in realtà imprenditoriali delle idee e dei brevetti sviluppati al loro interno. Questo filone di attività è cresciuto in modo esponenziale da quando, trent’anni fa,la legge Bayh-Dole consentì agli atenei americani di brevettare a proprio nome i risultati delle ricerche svolte con finanziamenti del governo. I risultati che la legge si proponeva – incentivare la propensione delle università al trasferimento tecnologico e accrescerne le possibilità di autofinanziamento – sono stati ampiamente raggiunti, con la moltiplicazione degli uffici dedicati a questa missione e la raccolta di oltre un miliardo di dollari in royalties solo grazie a questo specifico tipo di brevetti. È ormai consolidato, negli Usa e nei principali paesi avanzati, un modello di gestione che prevede la proprietà dei brevetti da parte dell’ateneo,la condivisione delle royalties con lo scopritore e il reinvestimento degli utili non solo a favore degli specifici gruppi di ricerca coinvolti, ma anche della comunità accademica nel suo complesso.
In Italia non si è seguita questa strada. La decisione italiana di consentire a chi fa ricerca nelle università di mantenere la proprietà intellettuale delle scoperte realizzate nell’ambito dell’attività universitaria priva in linea di principio gli atenei di una ragionevole compartecipazione ai frutti potenziali di scoperte cui hanno contribuito con uomini e mezzi e allo stesso tempo rende più ardua la trasformazione di idee brillanti in progetti vincenti.
Il passaggio dalle prime ai secondi è infatti molto difficile, sia perché richiede competenze multiple ( giuridiche, economiche, gestionali) delle quali chi fa ricerca è di norma sprovvisto, sia perché spesso impone investimenti precoci, prima che sia accertato il potenziale ritorno economico della scoperta. Anche se per fortuna alcuni atenei si sono mossi autonomamente per tempo e hanno varato specifiche regole interne per condividere le scoperte con i diretti responsabili, una normativa generale controcorrente rispetto alla prassi internazionale rischia di creare nuovi ostacoli alla non forte vocazione delle università italiane al trasferimento tecnologico e di indebolire la spinta all’innovazione nel suo complesso.
Il ritardo del nostro paese su questo fronte è dovuto in larga parte a riserve di carattere culturale che peraltro riecheggiano nel dibattito sulla missione dell’università anche in paesi, soprattutto Stati Uniti e Gran Bretagna, dove pure molte remore di fondo sono state da tempo superate.
Il punto di equilibrio tra due eccessi contrapposti è infatti difficile da conseguire e ancora più difficile da preservare. Una torre d’avorio insensibile alle applicazioni concrete delle scoperte scientifiche non solo volta le spalle a fonti di finanziamento autonome, ma limita anche la sua interazione positiva con la società (il brevetto sulle vitamine nel latte non ha solo prodotto dividendi, ha anche sconfitto una malattia). D’altro canto, un’università troppo concentrata sulla produzione di risultati sfruttabili commercialmente rischia di diventare un centro di ricerca aziendale finanziato dal contribuente e di mettere in secondo piano la ricerca "blue sky", quella che si fa solo seguendo l’intuizione e la passione. Un’università moderna – è ormai evidente – non può rinunciare né al "cielo blu" né al trasferimento tecnologico: deve poter brevettare i risultati raggiunti dai suoi ricercatori, garantire ad essi una giusta condivisione degli utili e investire il resto a favore dell’ateneo in modo da rafforzare anche i settori dove la ricerca non produce profitti.
Anche l’Italia farebbe bene ad adeguarsi a questo modello e magari, visto che oggi è l’Europa a finanziare massicciamente la ricerca avanzata, a promuovere una legge BayhDole comunitaria, dalla quale avrebbe tutto da guadagnare.