Dario Fertilio, Corriere della Sera 22/8/2010, 22 agosto 2010
CREAVO PER BETTINO, MI HANNO UCCISO
Per favore, non chiamatelo architetto. Né pittore o scultore . Scenografo, meno che mai. Giacché Filippo Panseca — l’uomo della Milano bevibile e biodegradabile, inventore del Garofano e della Piramide Craxiana — rivendica la primogenitura delle «videoinstallazioni». L’arte, cioè, di combinare registrazioni, bande sonore, diapositive, oggetti, immagini, in modo da coinvolgere gli spettatori.
Di sè, invece, Panseca dà una definizione semplice quanto impegnativa: «ricercatore nell’arte e nella vita». In cui c’è tutto il personaggio, così poco cambiato negli anni — non fosse per i capelli da artista settantenne ora tendenti all’argento — da far pensare che fuori dal suo atelier di 300 metri quadri, incastonato nella zona della moda a Porta Genova, si possano ancora incontrare i socialisti grandi e piccoli della Milano ruggente.
Per lui, del resto, l’inimitabile Bettino Craxi non se n’è mai andato: c’è nei ricordi e nello sguardo, nelle fotografie in cui loro due sono assieme, in congressi, visite ufficiali e tavolate ufficiose, scene tenere di famiglia con figli ancora piccoli, attimi che fermano la storia socialista appena prima che il leader si rivolgesse al popolo del Garofano. E ancora nei grandi momenti politico-estetici: il Tempio del 1987 al congresso di Rimini, la Piramide di Milano nell’89, l’Arco di Trionfo a Bari del ’91. Nel secondo di questi, soprattutto: quando al centro della piramide alta otto metri si rifletteva il volto di Craxi come un faraone. Allusione al soprannome sussurrato dagli intimi, «ma anche», ricorda con immutato orgoglio Panseca, «un modo per avvicinare il leader ai militanti, farglielo toccare quasi a cento metri di distanza, lasciar capire che quello era un partito diverso». Allora si era commosso persino l’ipercritico Giampaolo Pansa: «...la piramide non disturba, anzi! Aggiunge meraviglia a meraviglia».
Oggi che gli resta, di tanta gloria? Un po’ d’amarezza, però non solo. «Dopo la caduta di Craxi mi hanno ucciso artisticamente, sono andato a lavorare fuori dall’Italia, negli Stati Uniti, in Turchia, Cina, Nicaragua. Eppure, ripensandoci, il mio rapporto con la politica è stato positivo, mi ha permesso di scandagliare settori che, altrimenti, non avrei mai incontrato».
Del resto Filippo Panseca non si può racchiudere nel cliché di artista del Principe, sopravvissuto al diluvio di Tangentopoli. Il suo atelier testimonia una personalità eclettica in moto perpetuo: due pianoforti (uno a coda, un altro verticale), un gran tappeto passatoia che rappresenta il Muro di Berlino crollato («quella storia del mio finto Muro in blocchi di polistirolo trasportato in segreto al congresso di Rimini meriterebbe un capitolo a parte»), sculture, costumi e manichini. Oltre naturalmente ai quadri. Anche chi si è perso l’ultima mostra milanese alla galleria Battaglia li conosce, perché i giornali di tutto il mondo ne hanno parlato e i siti web hanno videato sui dettagli: Berlusconi in veste di Zefiro desnudo accanto alla sua Flora, la ministra Carfagna; Veronica alata dall’immenso seno siliconato; Sarkozy e Carlà come Paride ed Elena; di nuovo Berlusconi, ma con la bocca insanguinata dopo l’attentato, nel «Martirio di San Matteo», oppure più piacevolmente spogliato delle armi marziali dalla venerea D’Addario; Barack e Michelle teneramente avvinti nella «Danza al ritmo del Tempo»; e persino l’alato Marrazzo a concupire una Saffo che ha il volto tragico del transessuale Brenda. «Le ho realizzate tutte in digitale su tela, rappresentano le cronache odierne. Le quali, a loro volta, sono l’estensione delle cronache mitologiche di un tempo», spiega l’autore. Pensino gli altri, i critici, a disquisire sulle influenze dell’art pompier, la pittura francese del secondo ottocento che si rifaceva al neoclassico. Panseca, che è Docente di Computer Art all’Accademia di Brera, preferisce parlare dei suoi «pixel quadrati digitali che rappresentano la miniatura dei quadri. Milioni di pixel che dotano ogni opera di un suo Dna» (l’acronimo sta anche per Digital New Art).
Quando si toccano le novità tecniche, il volto di Panseca s’illumina, come all’epoca della sua piramide fatta di led, puntini in tricromia. «Adesso — racconta — sto realizzando nuove opere, utilizzando il QR, il codice a matrice bidimensionale che deriva da Quick Response (Risposta Rapida). Chi vorrà godersele, inquadrando un certo punto con la fotocamera riceverà sul telefonino tutte le informazioni: titolo, soggetto, data, stato d’animo dell’autore. E, collegandosi alla Rete, potrà vedere l’artista al lavoro su quell’opera».
I siti web sono un’altra passione di Panseca: ce n’è uno per contemplare sculture che «oltre ad avere un gradevole aspetto estetico producono energia elettrica fotovoltaica ed eolica indotta, rigorosamente pulita» (www.ecoartlab.com). Un altro per ammirare il suo prototipo: l’auto «2be» (in assonanza con il to be dell’Amleto), che poi è «una piccola city car concepita nel 2004 per l’isola di Pantelleria, realizzata ad energia solare» (www.2be.is.it). «L’ho offerta gratis — racconta — al sindaco di Termini Imerese, sarebbe stata perfetta per i lavoratori dell’indotto rimasti a casa, eppure nessuna risposta. Così ho accettato di produrla con una compagnia di Hong Kong». C’è poi un altro sito che fa conoscere al mondo il suo vino passito — sempre dell’amata Pantelleria, un’«opera da bere realizzata con i metodi artigianali inventati dai cartaginesi, in poche centinaia di bottiglie selezionate» (www.divinaproportione.org). Non c’è ancora il sito, invece — ma forse è questione di tempo — per illustrare il suo esordio letterario. È un romanzo vagamente fantasy, ma di intenti serissimi, in cui, racconta, «partendo dal ritrovamento di un disegno di Leonardo raffigurante l’uomo vitruviano alato, ripercorro l’arco temporale dell’umanità sulla terra. E che scopro? Il nostro progenitore aveva le ali e non era una scimmia». Ogni riferimento alle teorie di Pico della Mirandola sarebbe arbitrario: «Mi interessa l’aspetto scientifico, l’adattamento delle ali alla funzione delle braccia, e l’avventura si svolge in uno sperduto irrag-giungibile villaggio Sumo al centro della Riserva nella biosfera nicaraguense, dove un primordiale angelo femmina...».
Ma qui, anziché seguire sino in fondo il percorso mistico e fantastico della storia (titolo indicativo: Occasione provvisorie dell’assurdo, ancora in attesa di editore) occorre spiegare il perché di questa passione nicaraguense. Nasce da un’impresa alla Fitzcarraldo: «Laggiù ho progettato una cittadina per tremila persone, autosufficiente, a impatto zero, in grado di funzionare a energia solare ed eolica, ricavata dal materiale della foresta. È già tutto pronto, 50 chilometri a nord di Managua, in località Masapa Beach: novecento ettari, produzione di cereali e verdure, bestiame al pascolo, porticciolo sul Pacifico con barche a motore elettrico, acqua e pesce a volontà. Peccato che i finanziatori non si vedano, spaventati da Ortega e dall’idea che il paese sia a rischio».
Solo ora, si coglie un velo di malinconia: «Se Craxi non fosse stato sconfitto, tutto avrei realizzato, non mi sarei fermato ai prototipi». «Eppure — ammette — quello che davvero volevo, l’ho fatto. Comprese le mie plastiche biodegradabili, che la gente capisce oggi, 40 anni dopo». Ripensa alla Vittoria Alata rubata dalla mano di Napoleone, la statua del Canova all’Accademia di Brera, e da lui sostituita con una copia biodegradabile «in modo che impiegasse un mese a sparire, profumando l’aria di essenze vegetali». O alla «bottiglia-bicchiere fotodegradabile, destinata a decomporsi in due o tre mesi per effetto dei raggi ultravioletti, senza inquinare». Perché sta proprio qui, nella creazione fragile e provvisoria, la metafora dell’arte e forse il valore della vita. «Conta il ricordo delle cose, non la loro materia. L’arcobaleno che non si può toccare, e le macchine di Leonardo mai realizzate...».
La politica ormai è lontana. Certo che se Berlusconi, dopo aver tenuto a battesimo uno dei suoi figli, non si fosse dimenticato... «Craxi è stato un grande statista, Berlusconi lo rimando ai posteri. Quanto al simbolo, deve rappresentare il leader e la forza che rappresenta: il Pdl dovrebbe averne un altro». E il Pd? «Per quello andrebbe bene il mio Garofano, ma dov’è il leader?».