Philippe Daverio, Avvenire 22/8/2010, 22 agosto 2010
NERVI, IL SOGNO DEL CEMENTO ARMATO
Serve talvolta tentare di riassumere. Torna soprattutto utile per capire il secolo appena concluso e quel momento tuttora difficile da focalizzare che fu il ventennio fascista, nel campo delle arti, fra futuristi perenni, strapaesani cocciuti, astrattisti convinti e novecentisti ufficiali e meno. Il dibattito delle arti si trova trasportato quasi in parallelo nel campo della progettazione architettonica, tanto più esaltato inoltre dal fatto che allora si costruiva con enfasi e tantissimo. Anche lì si possono tracciare grosso modo quattro tendenze, pronte ovviamente all’incrocio, e cioè quella che oggi riferiamo al neoclassicismo di Piacentini, poi quella futurista d’un Diulgheroff, d’un Moretti, d’un Libera o d’un Terragni che aprono a quella razionalista di Pollini-Figini o di Pagano e infine, ma lì all’opposto d’un gusto strapaesano, quella riassuntiva e cosmopolita dei Giò Ponti, Lancia, Buzzi. Quello che avverrà nell’immediato dopoguerra sarà conseguenza quasi diretta del quadrifoglio e seguirà momenti alterni di esaltazione o repressione delle tendenze già tracciate. Esterno a tutto il fenomeno è Pier Luigi Nervi. Nervi non è architetto, è ingegnere laureato a Bologna nel 1913, il che non è poco in quanto Bologna ha formato ingegneri eccellenti da sempre e la sua facoltà di architettura è recentissima ma si trova oggi a Cesena. Ben diverso il caso di Milano, dove gli studi di architettura sono da sempre stati legati a quelli delle Belle Arti nell’ambito dell’accademia di Brera sin dalla sua fondazione napoleonica con Piermarini: il Politecnico milanese fu fondato nel 1863, il suo primo corso di architettura è di due anni dopo e l’ateneo si scinde in due facoltà diverse di ingegneria ed architettura nel 1933. A Bologna la questione rimane quindi ben più rigorosa e chi costruisce la modernità si tiene ben lontano dalla decorazione e dal disegno lirico a mano libera. A Bologna la lirica creativa permane nell’esaltazione dei numeri e della statica. Nervi è quindi sin dall’inizio del suo operare un fuoripista, in quanto per lui la cifra stilistica è totalmente ininfluente rispetto alla progettazione statica. Tutto parte dall’intuito geniale d’una tecnologia allora nascente e legata alle opportunità estreme delle gettate del cemento armato e delle nervature di struttura. Il suo entusiasmo diventa fede nella modernità.
È quindi comprensibile che i primi suoi lavori giovanili siano appunto ponti o capannoni. Ma c’è capannone e capannone e quelli che lui progetta per l’idroscalo di Orbetello negli anni esaltanti della trasvolata atlantica di vantaggi ne avranno tanti: permettono un’eleganza contemporanea che piace alla propaganda, consentono di risparmiare il ferro col quale si costruivano quelli precedenti e lo lascia al suo nuovo destino per l’industria bellica, vincono facilmente i concorsi perché costano meno, gli permetteranno di traghettarsi nell’Italia postbellica senza damnatio in quanto – se l’estetica può talvolta essere figlia dell’etica – l’ingegneria è solo figlia della matematica. E il linguaggio tecnico e esaltante della costruzione di Nervi diventa così il modello alto d’un Paese che si lancia nella ricostruzione. Diventa lui il protagonista d’avanguardia dei Giochi Olimpici di Roma nel 1960, aggiungendo al Palazzetto dello sport del ’56 quello della Lottomatica, poi l’anno successivo con Ponti, conosciuto nella collaborazione per il grattacielo Pirelli, realizza il Palazzo del Lavoro a Torino per il centenario dell’Unità d’Italia, e poi ancora nel ’64 viene incaricato da Paolo VI del progetto per l’aula nuova delle udienze pontificie in Vaticano. Muore poco dopo a 88 anni, avendo riscattato l’immagine d’un Paese diventato moderno con il boom economico e quella degli ingegneri messi nell’angolo dagli architetti che nel frattempo avevano scoperto il fascino mondano del design. Va fatta oggi una riflessione utile. Non è vero che vi sia una conflittualità di radice fra i due indirizzi del costruire. È vero che gli architetti spesso considerano gli ingegneri come competitori inferiori, utili solo a fare i calcoli statici e incapaci di tagliare gli spazi ad uso umano. Ed è altrettanto vero che gli ingegneri considerano talvolta gli architetti come poeti vanesi imbarcati in avventure impossibili. Ma tutta la storia classica del nostro costruire nega questa recente dicotomia perché la declina in modo umanistico fra capacità estetica e pratica, fra funzione e funzionamento, fra linee di tensione e disegno artistico. Nervi ne è esempio eccellente poiché le sue linee sono diventate linee estetiche che si sono rovesciate sul mondo visivo intero, dalla scultura al design, e – perché no? – alla stessa sperimentazione architettonica. Libertà progettuale assoluta la sua, imbrigliata solo nella logica scientifica dei pesi e delle materie. Sogno forse anche il suo, quello del cemento armato, che fu per davvero affascinante chimera per un’intera generazione che credette nella sua eternità senza sapere ancora che i ferri del calcestruzzo sarebbero così velocemente arrugginiti. Oggi il marmo si vendica del cemento, i capannoni splendidi di Orbetello sono crollati e il Palazzo del Lavoro torinese spera in un non facile restauro. Il costruire ha preso strade ancor più tecnologiche, linee nuove ne discendono, ma l’entusiasmo rimane il medesimo che animò lui, il Pier Luigi Nervi del ponte sul Cecina nel 1922.