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 2010  agosto 23 Lunedì calendario

CONTINUA IN TRIBUNALE LA STORIA DEL LIBRAIO DI KABUL


La questione è ben nota tra i giornalisti, diplomatici e operatori umanitari che viaggiano tra guerre e catastrofi nei Paesi poveri del mondo: quali garanzie esistono contro le informazioni distorte? Chi assicura che l’opinione degli abitanti del posto sia riportata correttamente? Il giornalista arriva da straniero, non conosce le lingue locali, le interviste sono affidate alla traduzione (spesso meno che accurata) di un fixer sul posto. Ma comunque racconta le loro storie, spesso li cita in modo approssimativo, tanto chi mai potrà contraddirlo? Proprio su questo argomento si concentra la strategia processuale di Shah Muhammad Rais, meglio noto come «il libraio di Kabul». «La mia vittoria al tribunale di Oslo è quella delle popolazioni del Terzo Mondo contro i media in malafede. E un punto a favore della corretta conoscenza dell’Afghanistan in Occidente», sostiene per telefono dalla Norvegia.
Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, tra il 2003 e 2004, dal banco della sua libreria nel cuore della capitale afghana, farfugliava confuso e offeso la sua rabbia contro Asne Seierstad, la giovane e affascinante giornalista norvegese che lui aveva accolto per oltre 100 giorni in casa, nell’intimo della sua famiglia, appena dopo la guerra del 2001. Lei l’aveva ricambiato con la pubblicazione di un libro che lui bollava al meglio come «una montagna di distorsioni, bugie, falsità», sino a tirare in ballo «l’onore perduto della mia famiglia» e la grave offesa contro «le leggi antiche dell’ospitalità afghana».

Tempi passati. Dopo un lungo processo, i giudici norvegesi gli hanno dato ragione. E a metà luglio è giunta la sentenza: la Seierstad è colpevole di aver «violato la privacy» della famiglia del libraio. Con la condanna: una multa di 250 mila corone (circa 31 mila euro), da dividere con la casa editrice. A loro anche l’onere delle spese processuali, che potrebbero ammontare circa ad altri 70 mila euro. Noccioline per l’autrice, il suo è stato a lungo un caso letterario.


«In questi anni il libro è stato tradotto in 41 lingue, ha superato i tre milioni di copie vendute», ci racconta a sottolineare che per lei non si tratta di «questioni di soldi». Ma piuttosto ci tiene a difendere la sua credibilità di giornalista, vincitrice del Premio Cutuli, e la serietà del suo lavoro. «Il problema è che il libraio continua a cambiare versioni della sua storia, distorce le mie parole, sfrutta il caso per fare campagne», spiega. Quanto poi al lato finanziario, la situazione potrebbe aggravarsi. Il processo è stato condotto sulla denuncia di Suraia, la seconda moglie del libraio (è più giovane di 30 anni). «Ora sto pensando di farle altre denunce: oltre a me, ci saranno la mia prima moglie Aziza, i miei due figli Iraj e Turaj, le mie due sorelle Farida e Safura, oltre a mio sucero Wasi. Potremmo ottenere indennizzi pari a oltre mezzo milione di euro», minaccia lui.

Asne ammette che le problematiche sollevate nel processo non sono prive di fondamento. Tutt’altro. «La questione della necessità che il lavoro dei media nei Paesi del Terzo Mondo sia accurato e credibile quanto quello svolto in Occidente è di grande attualità. È giusto che i giornalisti debbano rendere conto del loro operato a Kabul come a New York. Ma ciò non riguarda il mio libro. Ho vissuto a lungo nella casa di Shah Muhammad. Allora raccolsi le testimonianze delle donne, anche molto intime, ebbi modo di verificare più volte la fondatezza delle mie impressioni. Ormai sono quattro anni che non ci parliamo più in modo diretto. Ma ha dimenticato che, prima che iniziassi il mio soggiorno, gli chiesi che cosa avrebbe fatto se il libro non gli fosse piaciuto. E lui mi rispose che si fidava, ero libera di scrivere ciò che credevo. Lui comunque non avrebbe fatto nulla contro di me», spiega.

Su almeno un punto i fatti sembrano darle ragione: «Attenzione, perché il libraio è tutto tranne che il povero ignorante afghano. Quando lo conobbi era già famoso, veniva intervistato da tutte le televisioni del mondo. E negli ultimi anni è stato in continuo contatto con le dinamiche culturali della società occidentale».

Shah Muhammad non le perdona di aver scritto «dettagli intimi e offensivi della mia famiglia». Accusa: «Ha sostenuto erroneamente che la mia seconda moglie non voleva sposarmi e che avrei pagato 300 dollari di dote alla famiglia. Falso: la dote fu tra l’altro molto più alta, solo la festa di nozze mi costò oltre 20 mila dollari. Ha inoltre descritto il corpo nudo di mia madre e fornito dettagli intimi sulle abitudini sessuali dei miei cari. Una vergogna».

Già nel 2007 aveva pubblicato in norvegese le sue ragioni in un libriccino, C’era una volta il libraio di Kabul, la cui diffusione però fu limitata a poche migliaia di copie. Adesso punta a rilanciarsi con la sentenza. Ma Asne è già ricorsa in appello: si difenderà in nome della libertà di stampa. La sfida è aperta, sostiene. «Lui non vuole la conciliazione. Cerca pubblicità. Già quattro anni fa gli avevo offerto 60 mila euro in contanti per porre fine al contenzioso. Non li ha accettati, peggio per lui. Potrebbe finire con un pugno di mosche in mano».