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 2010  agosto 23 Lunedì calendario

«L’AMORE IMPOSSIBILE CON RUDOLPH PER COLPA DI CLAY»


Cinquant’anni dopo, Wilma è ancora un incanto. «Alta, elegante, magnetica. Due occhi vivi e colmi di promesse. Un fluido ammaliante, dentro il quale immergersi». Cinquant’anni dopo, la miopia di Livio è peggiorata ma la memoria viaggia ancora sui tempi record dell’Olimpiade 1960, il fiore sbocciato sulle rovine del dopoguerra, l’Italia aveva voglia di rimettersi in piedi («In giro c’era una povertà gioiosa, l’ambiente romano in occasione dei Giochi esplose in tutto il suo fragore, ricordo un grande slancio verso il futuro e una forma di partecipazione che ai giorni nostri, purtroppo, si è persa...») e Livio Berruti di correre, verso il filo di lana dei 200 metri (oro) e verso la diversità, nera e sensuale, di Wilma Rudolph, il fantasma con cui è sposato da cinquant’anni. Livio e Wilma. Ci innamorammo di loro a prima vista, un colpo di fulmine che ha viaggiato fino a questa estate 2010, nozze d’oro con Roma ’60 e con quella straordinaria suggestione collettiva, l’italian boy e l’americana del Tennessee, il bianco e la nera, oggi che Berruti, a 71 anni, è un ragazzo attempato incapace di percorrere dieci metri senza essere riconosciuto e associato alla sua dama — ciao Livio, e Wilma? — i tempi sono maturi per una rivelazione da affogare in un Campari senza lacrime. «Io e Wilma non consumammo mai quell’amore». Perché, Livio? « Perché gli allenator i della squadra Usa, che al villaggio olimpico ci seguivano ovunque, mi fecero capire che su Wilma aveva messo gli occhi un giovane pugile del Kentucky, che sarebbe stato meglio non infastidire per due motivi: perché era a Roma per vincere l’oro dei mediomassimi, una delle medaglie a cui gli Stati Uniti tenevano di più, e perché, se provocato, avrebbe potuto diventare aggressivo. Quel pugile che stava dietro a Wilma era un certo Cassius Clay». Perbacco. Finì così, sul nascere, la più grande storia d’amore e di sport di tutti i tempi. Nel museo della memoria ne conserviamo rari e preziosi reperti, li spolveriamo ad ogni anniversario, in memoria di ciò che avrebbe potuto, e non fu, e di Wilma, che, dopo essere nata prematura e aver bruciato sul tempo la poliomelite, cominciando a camminare a 8 anni e polverizzando a 20 i 200 in 22’’ 9 (prima donna nella storia a scendere sotto i 23’’, tre decimi succhiati al record di Betty Cuthbert: un progresso sensazionale come ci ricorda il bel libro di Claudio Gregori «Berruti, il romanzo di un campione del suo tempo»), se ne andò il 12 novembre ’94, abbracciata, vittima sacrificale e per sempre immortale, a un tumore al cervello. «Lo seppi dai giornali — ricorda Livio —, e ci rimasi malissimo». Il resto è noto. O quasi. L’incontro al villaggio a gare non ancora iniziate. «La Rudolph vorrebbe scambiare la tuta con te, Livio» gli dissero. Lo sventurato rispose, senza sapere che, da quel giorno, non avrebbe mai più smesso di farlo. «Quella famosa foto di noi due mano nella mano, con le dita intrecciate, che lascia sottintendere chissà cosa, in realtà fu scattata cinque minuti dopo che ci presentarono». Due sprinter di razza, anche nel privato. Un gesto di forte intimità. Le dita bianche che accarezzano le dita nere. Un messaggio potentissimo al mondo appena tre anni prima del discorso di Martin Luther King a Detroit: « I have a dream, ho il sogno che un giorno i bimbi bianchi e quelli neri possano stringersi la mano come fratelli e sorelle...». Come Livio e Wilma. Le cronache registrano incontri fugaci al campo d’allenamento e all’Olimpico. Mai in privato. Mai appartati. Mai soli. «C’erano sguardi lunghissimi, occhi negli occhi, perché da subito ci eravamo sintonizzati. Con le mani, che stringevamo appena potevamo, ci comunicavamo tutto ciò che le parole non esprimevano. Negli abbracci Wilma mi trasmetteva una magia e una volta le rubai un bacio a fior di labbra, fugace e rapidissimo, però i coach erano come cani da guardia, le trasgressioni non erano permesse e all’epoca vigeva una legge ferrea: mai sesso prima delle gare». Mentre Cassius Clay prendeva a pugni Roma (oro annunciato), Livio vinceva i 200 e Wilma i 100, i 200 e la staffetta 4x100. «La timidezza e la concentrazione richiesta dall’impegno agonistico mi impedirono di agire durante l’Olimpiade, ma mi ero preparato un piano: appena finite le gare avrei invitato fuori a cena Wilma, immaginavo di portarla a Trastevere senza sapere che, a casa, aveva un figlio e un uomo, speravo che fosse lei a fare la prima mossa. Il mio inglese era scarsissimo. La mia esperienza con le donne, nonostante la tresca con la russa Tonya l’anno prima a Mosca, limitata. Sono sempre stato per la qualità, non per la quantità. A costo di beccarmi gli sfottò dei compagni di squadra. Dopo la cena, avrei chiesto qualche dritta a un taxista, quelli di Roma sono i più sgamati: ci porti in un hotel discreto, in fretta. Invece...». Invece gli Usa, a corto di soldi, caricarono Wilma su un aereo con i suoi tre ori al collo e le promesse non mantenute nella stiva. «Sparì dalla sera alla mattina, senza salutare». E Livio rimase lì, sospeso e un po’ storto come oggi davanti al suo Campari. «Mi sentii tradito, impotente. La vissi come una fuga, ma con il sollievo di non essere deluso. E se non ci fossimo piaciuti? E se passare dalla fase platonica a quella aristotelica non fosse stato come ci immaginavamo?». Gli restano la tuta di Wilma, sotto naftalina nel cassettone («Se ne occupa mia moglie Silvia, che l’accudisce senza gelosia») e una valigia di ricordi. Non ha mai cercato Wilma nelle altre donne, giura. Però, da cinquant’anni , è sotto incantesimo. «Nemmeno la Loren e la Lollobrigida mi stregarono così».