Giorgio Dell’Arti, La Stampa 21/08/2010, PAGINA 72, 21 agosto 2010
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 30 - ANNI QUARANTA
Che cosa significa questa sua ultima frase: «La giovinezza del conte di Cavour era finita»?
Cavour aveva 31 anni. La giovinezza era finita. Finito il tempo degli amori. Finito il tempo del gioco. Aveva fondato il Club del Whist, ma della Borsa - con i suoi rialzi e i suoi ribassi - si fidava poco. Insomma, gli anni Quaranta.
I quali si possono riassumere…?
Vita di campagna. Affari. Viaggi. Un uomo maturo, sempre più disincantato, ma carico di energia e di voglia di fare. Aveva preso un gran gusto per Leri, dove andava appena possibile. Nel ‘42 era morta la zia Enrichetta, nel ‘46 la madre, nel ‘49 la zia Vittoria e la nonna Filippina, nel ‘50 il vecchio marchese Michele, devastato dalla gotta. Cavour era un uomo solo, che andava a letto con la moglie del medico Ghighetti giusto per conservarsi in buona salute. Il grande palazzo, privo ormai di donne, era vuoto, nonostante i tre figli del vedovo Gustavo. Non badava neanche più troppo all’eleganza. A Leri stava in una casa di contadini. A Santena, che era piena di comodità e non puzzava, non veniva mai. La mattina si svegliava alle quattro e leggeva fino al sorgere del sole. Ai primi raggi, eccolo sui campi, cappellone di paglia, guai se qualcuno si faceva trovar seduto, c’era magari un muretto da costruire o una cavalla da far sgravare.
Un padrone-padrone?
Sì, i contadini dicevano che era un po’ cane. Lui: «In un’azienda quale è questa, una subordinazione severa è il primo requisito di una buona amministrazione». «Per far cessare un tale abuso, non voglio fare anticipazioni quest’anno». «I miei ordini sono impreteribili»… eccetera. Licenziava senza esitazione muratori, capi boari, boari, prataioli, e una volta persino il parroco. Pretendeva personale capace e zelante. Un’inquietudine continua. Volendo un’azienda perfetta, non trovava mai pace.
Come può esistere un’azienda perfetta?
Nel caso di Cavour l’azienda perfetta era quella a ciclo chiuso. Abbastanza prato per nutrire le bestie, abbastanza bestie per concimare i prati. «Nessun fieno è così caro come quello che si compra fuori». «In Piemonte… si burlerebbero di me se sapessero che dopo di aver speso 40.000 lire in ingrassi compro ancora fieni». «Ci renderessimo eziandio il zimbello dei Vercellesi se fossimo costretti a comprar fieno questa primavera». In realtà non ci riuscì mai. Nel ‘43 lesse sulla «Gazzetta dell’Associazione agraria» un articolo dove si esaltava questo «ciclo chiuso» e mandò subito a cercare l’autore.
Chi era?
Giacinto Corio, un piccolo imprenditore quarantenne di Livorno Vercellese, che conduceva trecento ettari in affitto a San Genuario Crescentino. I contadini morivano in genere di fame, ma c’erano, specialmente in collina, «boari, massaj ed artigiani, gente industriosa, attiva e di una rigidissima economia» che era riuscita «a poco a poco a costruirsi un peculio» e a conquistare «palmo a palmo la terra che i loro padri avevano lavorato per una lunga serie d’anni in qualità di servi e proletarj».
Chi sta citando?
Giovanni Lanza, 37 anni, medico, figlio di un ferramenta, che badava con molto accanimento al suo pezzetto di 33 ettari, quasi tutto a vigneto, nella zona di Casale. Il Piemonte, oltre a parecchie terre incolte e a qualche latifondo, aveva una notevole estensione di piccole proprietà come questa, da 15-30 ettari l’una, spesso anche meno. Molti di questi piccoli proprietari agricoli formarono poi una parte consistente della classe dirigente risorgimentale. Tipo questo Giovanni Lanza.
Ci sono molte vie intitolate a Giovanni Lanza.
Era presidente del Consiglio quando fu presa Roma nel ’70. Il latifondo veniva spesso affittato, e chi lo affittava qualche volta lo spezzettava e subaffittava. Altre volte lo conduceva da sé, mettendoci denaro e fatica. Corio era uno di questi. Cavour lo convocò a Leri e gli fece visitare le tre tenute, cioè Leri, Torrone e Montarucco. Lui approvò tutto, compresa la proporzione tra risaia, seminativo e prato. Tre quinti delle terre erano a riso. Consigliò di provare la qualità della Carolina, in aggiunta al Bertone e al nostrano. E di lavorare a solchi il terreno della meliga, in modo da favorire lo spurgo dell’acqua d’inverno. Chiese se avessero mai provato l’aratro novarese, cioè proponeva certe modifiche sue all’aratro Sambuy. Eccetera eccetera. Cavour lo impegnò a venire a Leri tutte le settimane per un compenso di duemila lire l’anno, poi gli prestò dei soldi perché s’affittasse altre terre, infine, nel ‘49, lo associò all’azienda e lo nominò amministratore dei tre tenimenti.
Nel ‘49 il conte non s’era ancora dato anima e corpo alla politica?
Sì, certo. Nonostante questo, «l’iniziativa, lo spirito d’innovazione, la direzione tecnica, il controllo anche di dettaglio restavano saldamente nelle sue mani», come scrive Romeo. Il conte pretendeva relazioni dettagliatissime e pressoché quotidiane da Corio e dagli altri agenti. Voleva saper tutto dei dipendenti, compresi nascite, figli, amori, matrimoni. Un padrone-padrone.