PAOLA DÉCINA LOMBARDI, Tuttolibri La Stampa 21/8/2010, pagina II, 21 agosto 2010
Artaud: io sì che ho qualcosa nel ventre - Aveva avuto in sorte una famiglia borghese, l’intelligenza, il talento e anche la bellezza
Artaud: io sì che ho qualcosa nel ventre - Aveva avuto in sorte una famiglia borghese, l’intelligenza, il talento e anche la bellezza. Eppure l’esistenza di Antonin Artaud si è consumata come uno dei drammi in cui aveva recitato appassionatamente con tutte le fibre del corpo. Oltre alla scrittura, considerava infatti il cinema e il teatro «l’occasione per dimostrare che si ha qualcosa nel ventre». E il Marat nel Napoléon di Abel Gance, il monaco nella Passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, il Savonarola de I Cenci ne sono il magnifico suggello. Quanto precoce e fisico fosse il suo istinto teatrale, lo rivela già una foto di collegio in cui, insofferente alla posa disciplinata e all’attesa del flash, l’adolescente si protende fuori dal gruppo con piglio scanzonato. Ma in un autoritratto del 1915, lo sguardo da irridente si è fatto inquietante, quasi minaccioso. Interrotti gli studi, il diciannovenne che ha letto Baudelaire, Rimbaud e Poe, che dipinge e scrive versi, ha avuto le prime esperienze di cliniche per disturbi mentali. Che all’origine ci fosse una caduta infantile, una sifilide ereditaria o, anche, il rapporto con una madre tanto amata quanto colpevolizzante, come rivela una lettera del 1911, la cura con gli oppiacei all’epoca molto usati per le turbe dei soldati in guerra determinò la tossicodipendenza di Artaud. Da quel momento, la sua «storia di dolori» oltreché in alcune opere si iscrive sul suo corpo. In un alternarsi di assenza e furore, rivolta ed esaltazione, lucida follia e disarmata rassegnazione, il suo sguardo si spegne mentre il calvario di psicofarmaci ed elettroshock avvizzisce il volto e già a quarant’anni rende barcollante il passo. A documentare un’esperienza di vita tanto densa di incontri ed esperienze creative quanto tragica, è per la prima volta l’Album Antonin Artaud di Pasquale di Palmo, appena pubblicato da «Il ponte del sale», un’associazione per la poesia senza fini di lucro. In tiratura limitata a 500 copie, distribuita esclusivamente nelle librerie Feltrinelli, questo bel volumetto realizza un’operazione editoriale coraggiosa che mentre permette di accostarsi a un autore complesso come Artaud racconta le tappe del drammatico dispendio di una vita, tra promesse e disincanti, rivolte, cadute e tentativi di resurrezione. Più che una cronologia illustrata, è infatti una biografia per immagini in cui accanto a foto e copertine che documentano l’attività artistica e l’opera letteraria, spiccano autoritratti e ritratti, disegni e manoscritti che alla fine diventeranno geroglifici di filo spinato. Da Max Jacob a Rivière e Paulhan, da Adamov a Blin e Balthus, per Artaud le amicizie furono un grande sostegno, anche economico, ma fondamentale resta l’incontro con i surrealisti. Ha già pubblicato i versi di Tric Trac du ciel quando, nel 1924, entrato nel gruppo vuole rendere la Centrale surrealista un luogo di «riassetto della vita» con interventi di svolta rispetto ai primi «inoffensivi» volantini sulla poesia, il sogno, lo humour. Nella Dichiarazione del 25 gennaio per la «liberazione totale della mente» spiega il Surrealismo come «un grido spirituale». Stila poi Aprite le prigioni, smobilitate l’esercito, i messaggi Al Papa, Al Dalai Lama e Alle scuole del Buddha, le lettere Ai rettori delle università europee e Ai primari dei manicomi, ovvero quattro dichiarazioni collettive contro l’amministrazione della giustizia e l’esercito, la religione e il clero, il potere accademico e i metodi di cura della malattia mentale. Il furore anarchico dall’autore de Il Pesa-Nervi inquietano Breton ma per tre anni i suoi testi contagiano il gruppo. E quando la discussione in termini politici della rivoluzione accende la querelle e la rottura non tarda. «Tra il mondo e noi la rottura è sancita - aveva scritto Artaud su La Révolution surréaliste - Non parliamo per farci capire, ma soltanto a colpi di vomere dentro noi stessi, con la lama d’una accanita ostinazione rivoltiamo e livelliamo il pensiero... Il surrealismo è innanzitutto uno stato mentale, non preconizza ricette ». Con Breton che nel 1946 lo definisce «un genio e un grandissimo poeta con un alto senso etico», Artaud riannoda l’amicizia in occasione del suo ritorno alla vita civile dopo nove anni di internamento psichiatrico. Per ascoltare l’Histoire vecue d’Artaud le Momo têtê à têtê di Artaud, il 13 gennaio 1947 un grande pubblico affollò il «Vieux-Colombier» ma del poeta ritratto da Man Ray restava un fantasma che seguitava a rigirare tre quadernetti farfugliando. Lucidi e sconvolgenti erano invece nel testo i flash relativi all’esperienza dell’oppio e a quella del peyote presso i Tarahumaras in Messico, nel 1936, dove in cerca della cultura precolombiana visse con gli indios in caverne scavate tra rocce mozzafiato e paesaggi surreali. Delirio e scarna confessione, invettiva e poesia caratterizzavano invece il racconto dell’esperienza mistica in Irlanda segnata da violenze fisiche e morali culminate nell’arresto e nell’internamento, in Francia. Al grido contro la «sordida parodia di coscienza che forma il mondo in cui viviamo», si mescolava il resoconto straziante della resistenza e delle proteste con cui Artaud si opponeva «alla scarica di corrente» che lo faceva volteggiare «nell’aria come un pallone prigioniero…». Un anno dopo quella conferenza, i cui temi avrebbe rielaborato in Van Gogh il suicidato dalla società, moriva a 52 anni stroncato da un cancro.