ALESSANDRO BARBERO, Tuttolibri La Stampa 21/8/2010, pagina I, 21 agosto 2010
L’arcobaleno di Costantinopoli - All’epoca d’oro dei sultani ottomani, fra Cinque e Seicento, gli occidentali che arrivavano a Costantinopoli non erano mossi dalla ricerca dell’esotismo
L’arcobaleno di Costantinopoli - All’epoca d’oro dei sultani ottomani, fra Cinque e Seicento, gli occidentali che arrivavano a Costantinopoli non erano mossi dalla ricerca dell’esotismo. Nei loro racconti traspare soprattutto l’avida curiosità di conoscere meglio un nemico di cui si è tanto sentito parlare, ma non lo stupore o la meraviglia che oggi associamo alla scoperta di luoghi esotici. L’esotismo e i pericoli stavano tutti nel viaggio, che attraversava l’estrema periferia d’Europa, e non nella meta. Pochi ci arrivavano per mare; almeno per chi veniva dall’Italia, era più comodo sbarcare sulla costa dalmata e di lì proseguire a cavallo, un trekking che poteva durare anche un mese e mezzo, e con emozioni garantite. Nelle relazioni che gli inviati veneziani leggevano in Senato dopo il loro ritorno si tocca con mano la fatica di addentrarsi in paesi inospitali, l’Albania, la Bulgaria, la Grecia, dove i bey ottomani garantiscono a fatica la sicurezza. Paesi di briganti dove ogni viaggiatore deve tenere l’archibugio a portata di mano, e dove mentre si fa tranquillamente colazione sull’erba può capitare che i contadini del posto ti mostrino una chiazza scura sulla strada, spiegando come se niente fosse che è il sangue d’un viandante ammazzato e derubato il giorno prima. Si andava per interminabili strade di polvere, guadando fiumi e costeggiando laghi, su e giù per pietraie e attraverso cupe foreste, dove ogni incontro era motivo d’allarme, o perlomeno di sorpresa: s’incontrava una carovana di cammelli, e tutti si fermavano a bocca aperta ad ammirare le bestie meravigliose; si sorpassava un carro chiuso trainato da bufali, su cui una signora turca se ne andava a una festa di matrimonio, e mentre si chiacchierava con gli uomini di scorta si cercava di occhieggiare, vanamente, attraverso le cortine ben tirate. Poi, magari, si scopriva che il baffuto capo della scorta era un veneziano rinnegato, che raccomandava di salutargli, al ritorno, un signor Tiepolo o un signor Morosini, che aveva conosciuto bene in un’altra vita. Via via che ci si addentrava nei paesi abitati dai turchi, si annotava, sospirando, la sempre maggiore difficoltà di trovare del vino; e allora diventavano preziosi gli ebrei, presenti un po’ dappertutto, pronti a mettere in movimento le loro conoscenze e dare una mano ai viaggiatori spaesati. Ma tutte queste difficoltà cessavano di colpo quando si arrivava a Costantinopoli, metropoli europea dove cristiani ed ebrei erano numerosi quasi quanto i musulmani: il quartiere di Pera, dov’erano concentrate le case dei frenk, gli occidentali, pullulava di osterie. Sbarcando a Galata dalla barca con cui si era attraversato il Corno d’oro poteva quasi sembrare d’essere ritornati a casa, se lì a pochi passi i capannoni dell’Arsenale, il poderoso impianto industriale in cui il sultano teneva in magazzino le sue galere, non avessero ricordato anche al più distratto l’immensa e minacciosa potenza militare dell’impero. Poi il mondo è cambiato. Nel Sette e Ottocento, fra i viaggiatori occidentali la paura e il rispetto hanno lasciato il posto alla condiscendenza di chi crede fermamente d’appartenere a una civiltà superiore; e con essi è venuto meno il desiderio di ritrovare anche a Costantinopoli l’aria di casa, sostituito da una voglia nuovissima, che nessun uomo del passato avrebbe mai potuto capire: quella di sperimentare sensazioni esotiche. Compariva una figura nuova, il viaggiatore di professione, che raccontava le sue avventure al pubblico dei lettori di giornali. Uno di questi professionisti fu per parecchi anni Edmondo De Amicis, scrittore già famoso per i racconti di La vita militare, che fra il 1870 e il 1879 viaggiò in Europa e nel Mediterraneo scrivendo corrispondenze, e pubblicando ben sei libri di viaggio. Vale la pena di segnalare che Edmondo a quell’epoca non aveva ancora partorito Cuore, e che all’inizio del decennio aveva appena ventiquattro anni, sicché oggi lo classificheremmo nell’onnipresente categoria dei «giovani scrittori»; nessuno dei quali, però, troverebbe sostegno nei nostri giornali per fare tanti viaggi, e così lunghi, né forse avrebbe la forza fisica di produrre così tanto. Il più memorabile di quei libri è il penultimo, Costantinopoli, pubblicato nel 1878. De Amicis arrivò a Istanbul in piroscafo, dopo dieci giorni di navigazione da Messina, e la descrizione dell’arrivo è un pezzo di bravura che oggi stringe il cuore, perché descrive il lento svelarsi, col venir meno della nebbia mattutina, d’una città coloratissima, bianca rosa e verde, distesa a perdita d’occhio in mezzo a giardini e boschi di cipressi, là dove oggi c’è solo il grigio dei casermoni di cemento. Ma tutto il libro è la testimonianza irripetibile di una città che oggi non c’è più, come la folla di tutte le razze e di tutte le religioni che si accalcava sul ponte di Galata; come le viuzze di scalcagnate case di legno, pendenti le une verso le altre fin quasi a toccarsi, soffocate da un intrico di fichi platani acacie, di cui oggi si ritrova a fatica qualche avanzo; come i facchini armeni ed ebrei che si affollavano attorno ai viaggiatori «bestemmiando un italiano dell’altro mondo». De Amicis sapeva che la sua Costantinopoli sarebbe presto scomparsa, e in una delle pagine più inquietanti del libro descrive da visionario la città del futuro: «I colli saranno spianati, i boschetti rasi al suolo, le casette multicolori atterrate; l’orizzonte sarà tagliato da ogni parte dalle lunghe linee rigide dei palazzi», e una immensa nuvola d’inquinamento nasconderà in perpetuo la luce del sole. L’unica cosa che si ritrova ancora oggi identica a Istanbul, a distanza di più d’un secolo, sono quei turisti italiani che De Amicis incontra all’albergo, e che lo fanno schiattare di rabbia, perché si lamentano che la città è sporca, che non ci sono marciapiedi, e non si sa come passare le serate; gente con troppi soldi che se gli si chiede cosa gli è piaciuto di più nel viaggio, risponde elogiando la cucina del piroscafo. Ma forse, chissà, c’è anche quella «sposa italiana del secolo ventunesimo» immaginata da Edmondo, che «venendo qui a fare il suo viaggio di nozze» esclama rattristata: «Peccato! Peccato che Costantinopoli non sia più come la descrive quel vecchio libro tarlato dell’Ottocento che ritrovai per caso in fondo all’armadio della nonna!».