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 2010  agosto 21 Sabato calendario

La truffa del dittatore con la catena di S. Antonio - E’ vero che i grandi eventi si leggono nell’alba dei giorni che li vedranno

La truffa del dittatore con la catena di S. Antonio - E’ vero che i grandi eventi si leggono nell’alba dei giorni che li vedranno. Il mattino in cui lo hanno eletto presidente, nel 2006, i cittadini del Benin, il vecchio Dahomey dell’impero francese, specializzati nella pazienza di vivere, capirono che stava arrivando a tutto vapore la goduria della modernità. Banchiere, dottore in economia all’università di Parigi, inventore della succulenta promessa «Farò del Benin la Hong Kong dell’Africa occidentale»: eccolo sintetizzato Boni Yayi. Che bello! Basta con i dittatori che si proclamavano «Leader d’acciaio», «Miracolo Unico» o «Signore delle bestie della terra e dell’acqua». Che viaggiavano in sedia gestatoria e facevano esporre le proprie immagini in chiese e bordelli. Sì, Boni Yayi è il primo Madoff–Presidente; e lo ha nutrito il continente degli antropofagi e della malaria, dei violatori di diritti umani e della pance vuote. Centocinquanta milioni di euro trafugati attraverso il meccanismo della piramide finanziaria nelle saccocce dei risparmiatori che sono gli stessi che lo hanno eletto. I cesellatori del superlativo assoluto della truffa capitalistica non germogliano solo nell’aria condizionata di Wall Street; frullano giulivi e ingegnosi anche nel sudaticcio Palazzo di Cotonu. Cinquanta degli ottanta deputati hanno firmato una lettera che gli è stata consegnata ieri, in cui lo si invita a presentarsi spontaneamente davanti alla giustizia per rispondere di tradimento e spergiuro. Ed esigono che li restituisca lui, di tasca sua, i 100 miliardi di franchi Cfa; inghiottiti, uno sull’altro, da una classica «catena di Sant’Antonio» che prometteva interessi del 200 per cento, di cui il presidente sarebbe uno dei registi. Tutti sussurravano che Yayi vi era collegato, per questo si fidavano: in fondo garantiva lo Stato! Invece con i versamenti degli ultimi ingannati si pagavano gli interessi dei primi. Ha funzionato fino a quando il licenzioso meccanismo non si è inceppato, svelando la sua natura perfidamente truffaldina. Più modello-Madoff di così! L’Africa è un continente di truffatori gallonati. Ma erano tipini primitivi, come Macias Nguema che trasferiva la tesoreria dello Stato nello scantinato della sua casa natale, al paese; e se un ministro aveva bisogno di soldi per una spesa a bilancio doveva andarlo a trovare. Lui personalmente scendeva in cantina per il prelievo. O come il grande cleptocrate, Mobutu, un conto corrente con gambe e berretto in pelliccia di leopardo. Rubava dai 100 ai 400 milioni di dollari l’anno al Congo: ma stando seduto sotto un albero, in giardino, con a fianco solo il telefono e i bollettini della Sureté. Siamo passati, dunque, in Benin dall’età della pietra all’evo moderno del raggiro milionario. La società che ha realizzato l’indebito esproprio si chiama ICC Services; ha iniziato a promettere e distribuire le sue meraviglie attraverso una dozzina di società di promozione finanziaria nel 2006: poco dopo l’investitura del banchiere Yayi. Nel circostanziato dossier che gli accusatori imbracciano in parlamento e nelle strade risulta che i gestori andavano e venivano dal palazzo della Marina. Guy Akplogan, uno degli scrocconi riconosciuti, ancora a gennaio è stato ricevuto in udienza dal presidente. Tutti questi compari sono affiliati alla setta dei cristiani evangelici, cui ha aderito anche Yayi, che in origine era di religione musulmana. La promessa di far diventare gli africani ricchi è una delle chiavi con cui queste sette, tutte provenienti dagli Stati Uniti, stanno evangelizzando l’Africa, soprattutto quella del Potere. In fondo, anche i truffatori hanno una mistica. Quando ICC Services è capitombolata nei debiti, la commissione di inchiesta ha fatto in fretta a risalirne le orme fino alla dimora del dinamico presidente. Senza di lui, peraltro, non sarebbe stato possibile montare il meccanismo succhia-soldi, in confortevole assenza di qualsiasi controllo. Yayi nega tutto. E con tattica non originale ha cercato di uscirne sacrificando alla vendetta popolare alcuni collaboratori: il ministro degli Interni accusato di negligenza, il procuratore generale della Corte d’appello e un cugino, sciaguratamente arruolato tra i boss della società finanziaria. Quanto all’udienza di Aklogan, sostiene che fu una banale chiacchierata con un «filantropo che voleva lanciarsi nel microcredito»! Per placare le folle ha poi sguinzagliato la polizia a sequestrare auto e case dei dirigenti delle finanziarie, annunciando che serviranno a risarcire i creditori. Ma la rabbia non si placa: i soldi li vogliono, certo, ma da lui.