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 2010  agosto 21 Sabato calendario

IRAQ PER FOGLIO DEI FOGLI 23 AGOSTO 2010

Dopo 7 anni e 5 mesi di guerra l’Operazione Iraqi Freedom, iniziata il 20 marzo del 2003 per rovesciare il regime di Saddam Hussein, si è ufficialmente conclusa giovedì. Federico Rampini: «L’America ha ritirato dall’Iraq le ultime truppe da combattimento. La Quarta Brigata della Seconda Divisione di fanteria è rientrata in patria onorando con 12 giorni di anticipo una promessa precisa di Barack Obama: la fine dell’impegno di guerra entro agosto». [1]

“La storica fine di sette anni di guerra” era giovedì il titolo del Washington Post. Claudio Gatti: «Probabilmente è più esatto quello scelto dal giornale dell’esercito Usa, Star and Stripes, che ha invece parlato di “Lungo arrivederci”. Sottolineando i molti “problemi irrisolti” e i costi umani ed economici di questi ultimi sette anni in Iraq. Oltre 4.400 soldati Usa e 113mila iracheni sono stati uccisi. Quasi 750 miliardi di dollari sono stati spesi nelle operazioni militari. Ma il costo complessivo, tenendo conto dell’impatto sull’economia Usa, è stimato attorno ai tremila miliardi». [2]

“Missione compiuta”. Gatti: «Era il 1° maggio 2003 quando l’allora presidente George W. Bush atterrava sulla portaerei USS Abraham Lincoln, addobbata per l’occasione con un enorme striscione con quelle due parole. Sette anni e 110 giorni dopo non ci sono ancora le condizioni perché il presidente Barack Obama possa ripeterle». [3] Juan Cole, storico del Medio Oriente all’Università del Michigan ed esperto di affari iracheni. «Il Paese che le truppe americane si lasciano alle spalle ha l’aspetto di una nazione azzoppata, priva delle sue menti migliori fuggite all’estero, fragile nella sicurezza, incapace di fornire servizi minimi come l’acqua potabile e l’elettricità». [4]

L’Iraq è un posto migliore di prima della guerra? Alberto Negri: «Per i curdi e gli sciiti del sud massacrati da Saddam non c’è dubbio. Troppo facilmente si dimentica che le guerre del Raìs prima di tutto furono conflitti civili trasferiti all’esterno: l’attacco all’Iran nell’80 aveva come motivazione profonda soffocare l’opposizione sciita. I conflitti con i curdi erano mirati a eliminare con i gas un’etnia che reclamava l’indipendenza». Il Kurdistan è adesso una regione autonoma, gli sciiti occupano la maggioranza dei posti e dominano le provincie con le riserve di petrolio, i sunniti non riescono invece ad accettare la perdita del potere dopo secoli di predominio. [4]

Nonostante le elezioni si siano svolte lo scorso 7 marzo, i politici iracheni non sono ancora riusciti a formare un governo. Valeria Fraschetti: «Le urne non avevano registrato la vittoria netta di nessuno dei contendenti. Dopo cinque mesi di inutili trattative, sono stati sospesi i colloqui per la formazione del governo. A chiamarsi fuori dai negoziati è stata la lista Al-Iraqiya di Iyad Allawi che rappresenta sunniti e sciiti: Allawi ha gettato la responsabilità dello stallo sul rivale e premier uscente Nouri Al Maliki, che guida l’Alleanza dello Stato di diritto, accusandolo di usare toni “settari”». [5]

I risultati definitivi del voto sono giunti solo a maggio ed è da allora che i negoziati sono entrati nel vivo. Dalle urne non è uscito un chiaro vincitore: lo schieramento di Al Maliki è stato battuto (89 seggi contro 91, su 325) da quello del suo predecessore Allawi e le trattative tra i gruppi sciiti, sunniti e curdi non hanno ancora prodotto risultati. Il curdo Hoshyar Zebari, ministro degli Esteri nei diversi governi che dalla guerra del 2003 hanno guidato il “nuovo Iraq”: «Il problema è che nessuno vuole stare all’opposizione». [6]

Gli iraniani preferirebbero al Maliki, uno sciita che ha avuto voti sciiti, ma non abbastanza. Bernardo Valli: «E sarebbero ostili ad Allawi, uno sciita che ha raccolto i voti sunniti richiamandosi a una laicità neutrale. Gli americani preferirebbero Allawi, al quale non mancano le simpatie dell’Arabia Saudita. Queste influenze esterne non sono sempre decifrabili. Ma contribuiscono a impedire la formazione di un governo». [7] Negri: «Teheran ovviamente punta sullo sciismo, Ankara manovra sui due lati del Kurdistan: non è un caso che si siano messi d’accordo per controllare la frontiera. I vicini, Siria e Arabia Saudita comprese, sono i più interessati ad avere ai confini un paese debole e diviso». [4]

Per Zebari se si è arrivati a questo punto la colpa è anche di Obama: «Alle elezioni del 2005 i problemi furono molto minori, le interferenze straniere quasi nulle. Oggi invece è l’opposto. Turchi, iraniani, siriani, sauditi e tanti altri si mettono di mezzo. Se l’amministrazione Obama fosse stata più attiva nel lavorare per una mediazione, oggi probabilmente avremmo già un nuovo governo a Bagdad e saremmo molto meno deboli». E poi: «Ho cercato di comunicarlo tante volte negli ultimi tempi a Washington: se pèrdono l’Afghanistan è un Paese solo, se pèrdono l’Iraq pèrdono il Medio Oriente. Ma non credo abbiano capito». [6]

Il ritardo nella formazione del governo non può che lasciare spazio alle forze dell’eversione. Zebari: «Al Qaeda, il terrorismo, il settarismo prolificano in questa situazione di stallo». [6] Negli ultimi mesi le violenze sono aumentate: solo a luglio i morti sono stati 500, una cifra che non si raggiungeva dal maggio del 2008. [5] Il gruppo “Stato islamico dell’Iraq”, considerato una filiazione di Al Qaeda, ha rivendicato con un comunicato apparso sul web l’attentato al centro reclute di Bagdad, in cui il 17 agosto sono morte 57 persone. [8] Valli: «Gli attentati sono attribuiti ad Al Qaeda, vale a dire agli “stranieri”, ai gruppi integralisti sunniti che colpiscono gli sciiti ma anche i sunniti traditori, usciti dall’insurrezione armata. Le stragi possono anche essere di origine iraniana, ossia compiute da gruppi sciiti dissidenti, influenzati da Teheran». [7]

Obama ha lasciato in Iraq 50mila soldati, 56mila se si includono gli uomini dei reparti speciali e dei commandos della Cia, che resteranno nel Paese almeno fino alla fine del 2011. Rampini: «In teoria quelli che rimangono ora hanno compiti di ”consulenza e addestramento”, ma è evidente che una presenza di quelle dimensioni non si limita a un corpo di istruttori». [1] I 14mila soldati evacuati in questi giorni saranno sostituiti da almeno 7mila addetti privati che il New York Times ha definito «un piccolo esercito di contractor». [2]

Più del “martello”, ha spiegato John O. Brennan, principale consigliere di Obama per il contro-terrorismo, gli Stati Uniti pensano che adesso possa essere efficace lo “scalpello”. Valli: «La traduzione è che la guerra segreta, meno appariscente e più adeguata ai conflitti asimmetrici, è meglio della guerra in uniforme. Per l’intelligence un’armata di contractors è uno strumento più utile. Una guerra privatizzata è anche più segreta. E costa politicamente meno». [7] Robert Baer, ex capo delle operazioni Cia in Medio Oriente che ha raccontato la sua esperienza irachena nel libro See No Evil (da cui è stato tratto il film Syriana): «Un esercito di mercenari per sostenere le truppe regolari? Mi sembra la ricetta peggiore. Ovunque andranno, saranno visti come stranieri, invasori, pagati a suon di dollari. Finiranno per nuocere alle forze locali che si propongono di aiutare. A mio avviso è la ricetta per un disastro». [9]

Babaker Zebari, cugino di Hoshyar, comandante delle Forze armate irachene, pochi giorni prima del ritiro aveva chiesto agli Stati Uniti di rivedere i piani: «È prematuro, avremo bisogno di loro almeno finché i nostri soldati non saranno pronti, nel 2020». [10] Premesso che esercito e polizia sono molto cresciuti, che lo sviluppo è stato impressionante quanto ad addestramento, numero di uomini e mezzi, Hoshyar Zebari ha invitato a non fraintendere il cugino: «Si riferiva alla capacità di controllare i nostri confini. Un conto è combattere l’eversione interna e un altro essere preparati nell’eventualità di un attacco da parte di un nemico esterno». [6]

Forse esercito e polizia iracheni sono pronti a combattere l’eversione interna, di certo il Paese, allo stato attuale, non potrebbe resistere a un attacco dall’esterno. [6] Gianandrea Gaiani: «La fine di Iraqi Freedom lascia l’Iraq privo di reali capacità militari, con appena un embrione di marina e aeronautica e un esercito composto da oltre 200 mila militari in gran parte reclute male armate e dotate solo di un sommario addestramento alle operazioni di controllo del territorio condotte con piccoli reparti. Capacità forse adeguate nelle operazioni contro i miliziani di al-Qaeda ma irrilevanti in un conflitto convenzionale per combattere il quale l’Iraq non ha neppure le armi pesanti necessarie: mezzi corazzati, artiglieria, elicotteri da attacco e cacciabombardieri». [11]

Il ritiro delle truppe Usa, concordano gli esperti, era inevitabile. John Fisher Burns, inviato del New York Times, due volte premio Pulitzer: «I leader americani sanno che l’opinione pubblica è contro la presenza militare in Iraq e Afghanistan. Bisogna uscire, anche se sono coscienti che potrebbe derivarne la guerra civile e il caos totale. Maliki, come del resto ogni altro premier iracheno, non può assolutamente chiedere agli americani di restare, diventerebbe troppo impopolare». Altrettanto inevitabile sarebbe, senza gli americani, l’implosione del Paese: «Uno degli assunti che avanzano i sostenitori del ritiro è che, dopo anni di stragi, gli iracheni hanno imparato sulla loro pelle e dunque faranno del loro meglio per mettersi d’accordo. Penso che ciò non abbia alcun fondamento». [6]

Se per Fisher Burns «il futuro potrebbe rivelarsi molto peggio del passato» [6], per Baer il ritiro delle truppe combattenti americane schiude le porte alla guerra civile: «Sono due i focolai da cui una guerra civile minaccia di iniziare in tempi non troppo lunghi. A Nord fra sunniti e curdi (che puntano al controllo del petrolio, ndr), e a Sud per l’egemonia politica della maggioranza sciita». Per scongiurare questi conflitti etnici ci sarebbe una sola possibilità: «L’Iraq ha bisogno di un uomo forte per restare unito, com’è avvenuto in passato. Ma al momento nessuno dei leader politici nazionali attuali lo è abbastanza per riuscire a imporsi». [9]

L’idea dell’uomo forte è stata avanzata anche da Tarek Aziz, ex ministro degli Esteri di Saddam Hussein in carcere dal 2003. [12] Fisher Burns: «Speriamo non si riveli assassino e psicopatico com’era Saddam. Per il resto non so». [6] Qualcuno aveva pensato a Izzat Ibrahim Al Douri, numero due del regime che resta un riferimento per i nostalgici del Baath: re di fiori nel famoso mazzo di carte che immortalava i 55 più importanti ricercati (ne hanno catturati 46) a luglio di un anno fa pareva in trattative con gli americani, purtroppo a novembre ha annunciato la nascita di un Fronte della Jihad. [13]

Note: [1] Federico Rampini, la Repubblica 20/8; [2] Claudio Gatti, Il Sole 24 Ore 20/8; [3] Alix Van Buren, la Repubblica 20/8; [4] Alberto Negri, Il Sole 24 Ore 20/8; [5] Valeria Fraschetti, la Repubblica 18/8; [6] Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 13/8; [7] Bernardo Valli, la Repubblica 20/8; [8] la Repubblica 21/8; [9] La Stampa 20/8; [10] la Repubblica 13/8; [11] Gianandrea Gaiani, Il Sole 24 Ore 20/8; [12] Vincenzo Nigro, la Repubblica 7/8; [13] G. O., Corriere della Sera 21/8.