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 2010  agosto 20 Venerdì calendario

NEI VILLAGGI DELL’INDIA CHE NON CONTANO IL TEMPO

Chissà perché quando entrano nel nuovo aeroporto di Delhi molti indiani smettono usare la propria lingua. Il rito di passaggio è il brusco controllo dei documenti all’ingresso nell’atrio, promemoria della minaccia terrorista di cui mai nessuno parla. Ma varcata quella soglia, le stesse persone che cinque minuti fa discutevano accanitamente in hindi passano a un inglese dalla flemma ammirevole. Niente in questo cambio di marcia linguistico ha l’aria di essere semplice nostalgia coloniale. Per certi vecchi inglesi, l’India resta un ingrediente dell’identità più di quanto gli indiani abbiano ancora tempo per occuparsi di loro. No, il distacco emotivo ormai è consumato: se di colpo dalla cappa monsonica di fuori all’aria condizionata di dentro la lingua cambia, dev’essere per la stessa ragione che fa sembrare così strani gli indiani in tivù. Per esempio qui all’imbarco del volo per Hyderabad, un maxi-schermo parla di una mannequin delle Andamane: l’altro giorno si è suicidata in casa sua a Mumbai quando ha capito che un certo broker di Borsa non l’avrebbe mai sposata. Ne discutono in studio due ragazzi gonfi di muscoli, grottescamente forzuti. Come per caso sembrano l’opposto dell’indiano emaciato, spossato dal caldo, il corpo tagliente: la vecchia immagine che chiunque ha in testa, il mistico capace di attraversare il Paese a piedi digiunando o gettando i semi di una rivolta. Quello scarto linguistico, quei culturisti alla tivù, raccontano di un’India che cerca un’altra idea di sé. Poi però l’aereo atterra a mezzanotte a Hyderabad e lì c’è una navetta che porta alla stazione dei bus penetrando nel centro abitato. A Hyderabad vivono dieci milioni di persone nello spazio che in Europa servirebbe a una città media, magari Firenze o Lione. Nella notte la metropoli non si dà pace, alla luce di pochi lampioni i camion dipinti a fiorami, le auto e i risciò si inseguono come fossero in corsa contro il tempo prima che faccia giorno. La stazione dei bus poi ha un suo ordine incomprensibile a chi non lo conosca da sempre. Allineati a terra, sedati dal caldo, a centinaia dormono nella calca fra i piedi di chi cerca il proprio bus. A Hyderabad i nullatenenti non sono ancora stati espulsi insieme alle vacche, com’è successo a Delhi per rendere alla città un po’ della sua eleganza in vista dei giochi del Commonwealth in ottobre. Per arrivare a Bhadrachalam servirà tutta la notte. È un borgo rurale conosciuto per il tempio di Rama, Sree Seetha Ramachandra Swamy, un quadrilatero di pietra bianca affacciato sull’enorme letto arido del fiume Godavari, dominato da tre torri del ’600. Sulla strada che porta al tempio una statua vagamente infantile del mahatma Gandhi ha l’aria di dirigere il traffico, qualche capra, due vacche bianche, un carretto della frutta incrociato da qualche raro motorino, un pick-up. Al tempio, i pellegrini non entrano se non indossano vestiti puliti. Quelli che invece hanno già terminato le preghiere a Rama si raccolgono per colazione in una taverna sulla via principale. Le donne a questo punto sono calve dopo aver donato i capelli al dio e sedendosi nella penombra con i loro bambini e i mariti ordinano pane fritto, riso, yoghurt. Mentre le pale appese al soffitto cercano di tagliare un po’ della cappa umida, i familiari riuniti intingono le mani nello yoghurt, ci rivoltano dentro il riso, si succhiano a lungo e lentamente le dita. È la dieta degli indù delle cinque caste, dai bramini ai dalit. La sesta abita non lontano da qui, in questa terra di frontiera fra l’Andhra Pradesh e il Chhattisgarh, e mangia quel che trova nella giungla: rane, topi, formiche, serpenti, di cui chiunque qui riconosce subito il fruscio. Sono gli adivasi, le tribù dell’India centrale, un popolo di cento milioni «incapace di afferrare l’idea di cambiamento», avrebbe detto V. S. Naipaul, in una nazione di un miliardo che del progresso ha fatto la sua ultima bandiera. Gli adivasi vivono nascosti nella foresta intorno a Bhadrachalam e quasi nessuno di loro sa quanti anni ha. A una trentina di chilometri dal tempio di Rama, 26 famiglie hanno bruciato gli alberi creando una radura per le loro capanne. In queste campagne molti braccianti devono ancora offrire la propria moglie al latifondista nella prima notte di nozze (nei giornali di Delhi si parla di un’avanzatissima legge sui comitati interni d’impresa contro le molestie). In serata l’autobus ripartirà, risalendo di villaggio in villaggio verso le terre degli adivasi. Gli abitati di più di un centinaio di case espongono tutti statue - paiono in marzapane - di Indira Gandhi, di suo figlio Rajiv, suo nipote Rahul, o del mahatma. Quando i villaggi sono invece solo poche baracche si vedono semmai bandiere rosse, falci e martello in cemento altre due metri, donne dai sari verde, rosa o giallo con grossi otri di rame sulla testa. È un’altra notte di bus, altri 300 chilometri verso Nord Est, la stessa ipnotica musica che tiene sveglio il conducente. Qualcuno si è addormentato con la nuca sulle mie gambe, non lo svegliano neanche i sussulti del bus sullo sterrato. Si scuote solo quando due signore verso le tre chiedono all’autista di fermarsi. Siamo nella foresta, al buio gli alberi sembrano altissimi. Le due donne si appartano appena lungo la strada, risalgono. Domattina saremo a Dantewada, il cuore della terra degli adivasi. Né bandiere rosse né statue di marzapane qui. Ma si capisce che siamo arrivati perché quattro donne lavorano in un cantiere edile: si caricano secchi di pietre sulla testa e spariscono dietro un muro. I mariti, saranno ancora ubriachi da ieri sera.