FABIO POZZO, DOMENICO QUIRICO, La Stampa 20/8/2010, pagina 12-13, 20 agosto 2010
La mancanza di cibo scatena una guerra da miliardi di dollari (3 articoli. ATTENZIONE: il secondo è già uscito sul Foglio del 23/8) - La guerra dei fertilizzanti che si sta combattendo in tutto il mondo, ma in questo momento soprattutto tra Canada e Australia, sta diventando una «business war» sempre più appassionante
La mancanza di cibo scatena una guerra da miliardi di dollari (3 articoli. ATTENZIONE: il secondo è già uscito sul Foglio del 23/8) - La guerra dei fertilizzanti che si sta combattendo in tutto il mondo, ma in questo momento soprattutto tra Canada e Australia, sta diventando una «business war» sempre più appassionante. Se non fosse che i colossi che la stanno combattendo stiano mettendo sul tavolo del Risiko montagne di miliardi in dollari scommettendo sulla sventura. Sulla fame del mondo. Sotto i riflettori, adesso, c’è il potassio. È un metallo molto leggero, secondo in ordine di leggerezza dopo il litio. È addirittura meno denso dell’acqua ed è talmente tenero che si può tagliare facilmente con un coltello. Il 95% della produzione (25 milioni di tonnellate, concentrata soprattutto tra Canada, Bielorussia e Russia) finisce in fertilizzanti (cloruro, nitrato, solfato di potassio). Nel mondo si contano risorse per 250 miliardi di tonnellate, su uno stock complessivo di 8,5 miliardi di tonnellate. Tutti gli analisti scommettono sull’agrobusiness, che sarà il grande affare di un futuro nemmeno poi tanto lontano. La popolazione è destinata ad aumentare, i Paesi emergenti crescono, dunque ci sarà sempre più bisogno di prodotti agricoli e dell’allevamento (cui va il foraggio). Aggiungendo a tale «brodo» in ebollizione anche un pizzico di speculazione, vale la pena di scommetterci, senza tanti scrupoli morali. Ecco perché Bhp Billiton, il gigante minerario anglo-australiano sta combattendo per conquistare il primo produttore di potassio del globo, la canadese Potash Corp. Ieri c’è stata l’ultima puntata della «guerra», che ha già visto Bhp offrire 39 miliardi di dollari per Potash, il board canadese rifiutarla e gli aglo-australiani rilanciare con un’Opa ostile: gli azionisti di Potash hanno guardato con sufficienza ai 130 dollari per azione proposti da Bhp. «È una buona base di partenza», hanno detto. Insomma, alzano sul prezzo. Sino a quanto? «Il minimo possibile - dice Daniel Bubis, responsabile della Tetrem Capital Management, che ha in pancia 2 milioni di azioni Potash - è un prezzo di 150 dollari per azione con 160-170 dollari come probabile offerta finale». E, aggiunge, «se dovesse emergere un’offerta concorrente, tutto il quadro cambierebbe». Sempre secondo Bubis, sarebbe utile anche guardare alla Cina, per la quale il potassio «è una materia prima di grande importanza» anche alla luce del fatto che l’alimentazione dei cinesi si sta modificando. Gli anglo-australiani per ora non demordono. Anzi, affilano le armi. Ieri hanno ottenuto linee di credito per 45 miliardi di dollari da sei banche (Banco Santander, Barclays Capital, Bnp Paribas, JpMorgan Plc e Royal Bank of Scotland) per la scalata al potassio delle praterie dello Saskatchewan. Sino a dove potranno arrivare? L’orizzonte disegnato dagli analisti ha i contorni di una cifra vicina ai 60 miliardi di dollari. La battaglia, però, non si sta giocando soltanto tra Canada e Australia. In Russia, ad esempio, sta sorgendo una sorta di monopolio del potassio. Il businessman Anatoly Skurov, l’oligarca Suleiman Kerimov e il deputato della Duma Zelymkhan Mutsoyev, attraverso acquisizioni, sono arrivati a controllare il 69% di Silvinit, il primo produttore russo di questi preziosi sali. Lo stesso Kerimov, con altri due partner, nel giugno scorso aveva acquistato il 53,2% di Uralkali, secondo nel Paese per produzione. E ora si parla con insistenza di una fusione tra i due colossi, che darebbe vita al secondo gruppo produttivo del mondo, dopo Potash. E dopo il potassio, il fosforo, altro componente dei fertilizzanti. Anche questo è un fronte di guerra. Il gigante brasiliano Vale ha acquistato le miniere di fosfati e gli impianti dell’americana Bunge (per 1,65 miliardi di dollari) nonché il suo 42,3% in Fosfertil, primo produttore di fertilizzanti del Paese (per 2,15 miliardi) e sta guardando anche a Mosaic, il secondo produttore nordamericano di fertilizzanti: si era parlato di un’offerta di 25 miliardi di dollari, ma intanto Mosaic ha pagato a Vale 385 milioni per acquistare in joint-venture una miniera di fosfati in Perù. Fabio Pozzo *** La guerra per il nuovo Eldorado è cominciata. Gli eserciti in campo hanno tutte le bandiere. Sventola persino il vessillo del «socialismo minerario». Ma le ideologie non contano: a prevalere è la certezza che del litio presto non se ne potrà più fare a meno. L’oro bianco Il litio è usato nelle leghe conduttrici di calore, come componente di medicinali, vetro, ceramica, alluminio, strutture aerospaziali. E nelle nuove batterie, in cui compare in genere sotto forma di sale (carbonato, perclorato): quelle agli ioni di litio ricaricabili stanno conquistando il mercato. Questo perché sono in grado d’immagazzinare elevate quantità di elettricità in poco spazio, con un peso contenuto e senza effetto memoria. Sono l’anima dei cellulari, computer portatili, fotocamere, lettori mp3. Lo saranno delle auto elettriche. La cassaforte globale Quanto contenuto metallico di litio c’è sul pianeta? È tema di dibattito: 11 milioni di tonnellate per il Servizio geologico Usa; 31,5 milioni di tonnellate dice l’International Lithium Alliance, la voce dell’industria. Gli ultimi conti si potranno fare solo quando si conoscerà la portata della salina boliviana di Uyuni: 9 milioni di tonnellate secondo gli americani, 18 milioni per il governo di Evo Morales. Il Sudamerica è la cassaforte globale di litio, con Cile, Argentina e Bolivia. Il mercato del carbonato è invece in mano a uno Stato, la Cina, e a tre colossi privati: la cilena Sociedad Quimica y Minera, al 32% della canadese Potash Corp.; la statunitense Fmc Corp. e la tedesca Chemetall GmbH, controllata dall’americana Rockwood Holdings. Escalation dei prezzi La domanda di litio è di 23 mila tonnellate l’anno, quella di carbonato di 122 mila tonnellate. Ma è destinata ad aumentare: del 40% secondo Byron Capital Markets, al 2014. Se partirà l’auto elettrica, poi, la richiesta schizzerà alle stelle. E così il prezzo, che è già aumentato del 238% negli ultimi 12 anni, da 350 a 3.000 dollari negli ultimi cinque. La quotazione ora è scesa a causa della crisi globale, ma i produttori non si disperano: hanno anche tagliato i prezzi, per favorire la ripresa. Afghanistan Secondo gli esperti, con la domanda attuale quel che c’è di litio sarà sufficiente per altri 1.800 anni. Con un milione di tonnellate si costruiscono 395 milioni di batterie da 16 Kwh della Chevrolet Volt... Senza contare che di recente un pool di esperti americani ha scoperto nel nord dell’Afghanistan un giacimento di minerali immenso, per un valore fino a tremila miliardi di dollari. Litio incluso. La corsa Le compagnie minerarie si contendono i diritti di sfruttamento delle distese salate degli altipiani sudamericani (Uyuni, Acatama, Hombre Muerto, Rincon, Olaroz) e hanno in ballo progetti di ricerca per un valore complessivo di un miliardo di dollari. Schiacciando l’occhio ai colossi dell’hi-tech e dell’automotive. Il finanziere bretone Vincent Bollorè, partner nella «blue car» di Pininfarina, è pronto a investire 1,2 miliardi di dollari in Bolivia e ha siglato in Argentina un contratto d’esplorazione con Minera Santa Rita. I giapponesi sono sbarcati in Sudamerica con Toyota Thusho (e l’australiana Orocobre), e co l’alleanza Mitsubishi-Sumimoto-Japan Oil, Matshuita, Nissan-Nec. I coreani con Lg Chem e Kores. Il Canada con Magna. E poi ci sono Volkswagen-Sony, i russi di Gazprom, i cinesi. Socialismo minerario In Cile si discute se questa ricchezza debba andare in mani private oppure essere un business nacional, mentre la Bolivia sta accarezzando il sogno del «socialismo minerario». Qui, il presidente Morales ha nazionalizzato il litio: l’esplorazione, dice, «dev’essere legata allo sviluppo dell’industrializzazione nel Paese». Le «tute blu» delle saline, in gran parte indigeni, vogliono che il litio sia controllato da un’impresa sociale pubblica e gli utili ripartiti. Il problema è che alla Bolivia mancano tecnologie e denari e tali risorse possono offrirle solo investitori stranieri. Il presidente ex leader cocalero dovrà venire a patti col diavolo. Fabio Pozzo *** Sudan, la corsa all’oro nel fango dell’ultima Africa - L’oro è lì, c’è, bisogna frugarlo dove l’Africa fa un gigantesco scalino di pietra roso dal tempo e dal vento prima di precipitare verso il deserto egiziano. L’oro. E’ sparito il velluto verde delle praterie , un paesaggio desertico e lunare assedia il Nilo con immense distese aride, è un deserto di pietra color del bronzo e del rame; nelle ore meridiane la terra vi raggiunge una temperatura di altoforno, brucia i piedi, riduce tutto in cenere. Chi ha condannato questi esseri umani avvolti in fute sudice, pattuglie mute patinate di polvere, a questo atroce esilio? Perché? Per quali colpe? Nessuno sa come è cominciato. Forse per una voce. Antica come la storia dell’Africa. Nel nord del Sudan i faraoni neri, i mitici signori di Meroe, estraevano l’oro per i loro splendori quando l’Europa ancora guaiva nelle tenebre. Tra Abbara e Abou Hamed, a 500 chilometri dai minareti di Karthoum, il mormorio non è mai cessato: l’oro è lì, bisogna lottare con la pietra, e diventa tuo. Due anni fa il corso del metallo giallo è bruscamente aumentato; ed la corsa all’oro. Qui, nel cuore dell’Africa: affannata, mitologica, feroce come nell’America di un secolo fa. Ci sono duecentomila persone, almeno, un formicaio impazzito, sudato, esausto ma implacabile come il sogno di diventare ricchi, che con i rilevatori di metallo setacciano il deserto sudanese. E’ una febbre, un delirio, che li fa arrivare da ogni parte del Sudan. Fino a poco tempo fa in questa zona le uniche ad offrire lavoro erano le squadre di archeologi che cercano le testimonianze del fastoso autunno dei faraoni africani. Ora non trovano più operai per setacciare il deserto. Tutti cercano l’oro. Molti hanno gettato via i loro mestieri, salutato le famiglie: per una pietra che dà appena tanto oro da colorare un polpastrello, meno a che toccare l’ala di una farfalla. Eppure hanno ragione: l’oro c’è, lo dicono anche i geologi che parlano di serbatoi inesplorati nascosti sotto la roccia che bisogna triturare, far diventare scheggia, e poi polvere per portarle via il metallo. Ci credono le grandi compagnie minerarie internazionali. A Haassi, nel Nord Est, «Ariab» l’anno scorso ha estratto sessantamila once. Altre sigle, come la francese «Areva» fanno la fila per ritagliarsi concessioni grandi come il Belgio. Tra poco invaderanno il deserto con le mandibole di immense perforatrici, fiumi di sassi si metteranno in marcia su tappeti semoventi. Ma per ora il deserto è di questi piccoli uomini, dei loro pick-up sbrindellati, dei villaggi fetidi cresciuti dal nulla dove si riforniscono e si concedono brevi soste febbrili. Perchè sanno di vivere, camminare, sudare sopra l’oro, vorrebbero avere mani di acciaio per rovesciare le fondamenta del mondo e scoperchiare al sole il tesoro. La sera si riuniscono eccitati attorno a quelli che hanno avuto fortuna, si fanno raccontare e riraccontare il giorno in cui il fruscio del metal detector ha cominciato a impazzire. Come a Mukhtar che crepava di miseria facendo il commerciante, e che in quattro mesi ha già guadagnato abbastanza per comprare due auto usate. Si sono indebitati per comprare i rilevatori di metalli dell’ultima generazione che costano alcune migliaia di dollari, quelli che non sono riusciti a convincere gli usurai di città si sono riuniti in piccole compagnie, con l’impegno di spartirsi la ricchezza quando arriverà. Altri hanno stretto accordi con chi possiede vecchie scavatrici che sollevano la roccia per scoperchiare una terra color sangue. Ma ci sono anche i disperati, coloro che hanno solo le mani e nessun strumento. Loro stanno ad Al Abidiya, un villaggio sorto dal nulla vicino al Nilo. Dove viene scaricato il minerale portato dal deserto, frantoi alimentati da generatori color ruggine che tossiscono per l’età e la cattiva manutenzione, lo triturano, lo trasformano in piccole colline che il vento avvolge pigramente di polvere. Non si vedono donne o bambini, qui, solo uomini. Immondizie asciugate dal vento, baracche rattoppate con lamiere e cartone, rivoli di acqua sudicia, mosche irritate in fitti nugoli neri, cigolii, clangore di catene. Uomini seminudi, i piedi immersi in vasche di acqua prelevata dal fiume, rimestano la polvere di roccia mescolata al mercurio per isolare il metallo giallo. Piccoli laghi di bagni chimici, di un verde lattiginoso. Ferro che infrange, acqua che lava. Pietra nata dalle lontane conflagrazioni cosmiche si sbriciola. Dentro ogni tanto una polvere di sole. Un grammo d’oro rende novanta sterline sudanesi (35 dollari). Il mercurio finisce nel Grande fiume, lo avvelena, la ricchezza diventa morte. Domenico Quirico