Gianluca Nicoletti, La Stampa 20/8/2010, pagina 1, 20 agosto 2010
Dopo Internet meglio cambiare nome - I nativi digitali quando cresceranno e diventeranno persone serie saranno costretti a cambiare nome
Dopo Internet meglio cambiare nome - I nativi digitali quando cresceranno e diventeranno persone serie saranno costretti a cambiare nome. Sembrerebbe che questa sia la maniera migliore per evitare di rispondere delle proprie baggianate adolescenziali, vale a dire di quegli imbarazzanti scheletri di spensieratezze giovanili che i motori di ricerca potrebbero dragare dal passato smanettone di ogni frequentatore assiduo del web partecipativo. Si cambia nome e il passato digitale in un colpo è sepolto? Parrebbe possibile, visto che questa singolare misura cautelativa è suggerita addirittura da mister Eric Schmidt, che come Chief Executive Officer di Google è uno degli uomini che maggiormente hanno determinato l’esistenza di quell’immensa carta moschicida che imprigiona per sempre le piccole e grandi scelleratezze. Quelle che comunemente si mettono in rete senza pensarci troppo, così, un po’ per gioco, un po’ per illudersi che nella condivisione globale possa renderci interessanti anche quella foto innocente, fatta magari durante una serata a medio tasso alcolico. Il top manager di Google l’ha buttata un po’ come facezia nell’intervista che ha rilasciato al Wall Street Journal, ma ha comunque ribadito che tutte le informazioni che mettiamo di noi in rete saranno sempre di più facilmente raggiungibili da chiunque voglia farsi un’idea su chi veramente siamo. Oltre a quello che scriviamo in dettagliati curricula sulle nostre virtù professionali o che facciamo riferire a chi sulla nostra correttezza e spessore etico è disposto a mettere la mano sul fuoco. La rete però non dimentica. E se qualcosa che abbiamo fatto o detto potrebbe contraddire tutto, per non compromettere future carriere Eric Schmidt profetizza un giorno in cui «ogni ragazzo avrà automaticamente il diritto di cambiare il proprio nome al compiere dei 18 anni per cancellare le bravate memorizzate sui social network». Non si parla di grandi delitti da cancellare o di atti inconfessabili che gridano vendetta al cospetto di Dio, magari per i più è la cronaca dettagliata di una gara di rutti su YouTube, oppure quella foto con i pantaloni abbassati fatta in un’estate spensierata o quegli ardori rivoluzionari espressi in un blog di quando si credeva di poter cambiare il mondo. Cose da nulla, ma chi sa come potrebbero essere prese da un capo del personale alla ricerca dell’ integerrimo nella risorsa umana da selezionare? Così come un tempo ci si purificava dall’onta del cognome infamante, affibbiato a un nostro avo come condanna indelebile al suo status di trovatello, il futuro potrebbe prevedere la stessa procedura per chi avesse affidato atti di volontaria autodegradazione alla memoria eterna del web. Tutto parrebbe quindi risolto, ma al metodo Schmidt per rinverginamento onomastico di sicuro si potrebbe fare una sommessa obiezione. Chi cambia cognome è di solito obbligato a farne comunicazione pubblica: anche il nostro ordinamento, che ne ha semplificata la procedura nel decreto del Presidente della Repubblica del 3 novembre 2000 n. 396, specifica che la domanda debba essere affissa per un certo periodo nell’albo pretorio del Comune di nascita del richiedente. Non è certo possibile escludere che l’implacabile motore di ricerca possa andare a scovare ugualmente la memoria digitale di quell’atto. L’amara conclusione sarebbe a questo punto inevitabile: tornar vergini non si può più, anche se lo assicura il signor Google in persona, che in fin dei conti, e se proprio vogliamo dirla tutta, è il maggior divulgatore di ogni nostro cedimento alla lussuria del mostrare le proprie vergogne.