Marco Magrini, Il Sole-24 Ore 20/8/2010, 20 agosto 2010
SENZA NPK CHE MONDO SAREBBE?
La Potash Corp, ultimo oggetto del desiderio in un mercato azionario depresso
L eppure capace di regalarci la tradizionale scalata estiva, piace alla Bhp Billiton. Magari, come sospettano alla JP Morgan, piace anche ai cinesi che potrebbero azzardare un rilancio. Eppure, la Potash non piace a tutti gli investitori: pochi giorni fa, la Kommunal Landspensjonskasse – il fondo pensione dei dipendenti pubblici norvegesi – l’ha cancellata dal portafoglio titoli, insieme ad altre due aziende rivali.
Motivo: l’azienda canadese continua a importare fosforo e fosfati dal Marocco, il quale se li procura in un Sahara Occidentale illegalmente occupato.
Ma c’è poco da fare.Il mondo,senza neppure saperlo, ha un oggetto del desiderio ben più grande e irrinunciabile. In sigla, lo chiamano N-P-K. Equivale all’universale desiderio di avere la pancia piena.
L’azoto (N), il fosforo (P) e il potassio (K)– rispettivamente il settimo, il 15?e il 19? elemento della Tavola periodica – sono alla base dell’agricoltura. Senza questo trio di atomi, variamente combinati ad altri elementi per fare i fertilizzanti, la produzione alimentare intensiva che conosciamo oggi sarebbe semplicemente un’utopia.
La Potash li produce tutt’e tre. Nel 2009, col potassio dal quale prende nome ha fatturato 1,2 miliardi (il 33,4% del totale), 1,3 col fosforo (34,3%) e 1,2 con l’azoto (32,3%).
Chissà se a Marius Kloppers, 49enne ammi-nistratore delegato di Bhp Billiton, la Potash fa più gola per la N, per il P o per la K.
Verrebbe da scommettere sulla P. Phosphorus,
o fosforo.
Al 19? Congresso internazionale sulla scienza del suolo, che si è tenuto la scorsa settimana proprio a Brisbane, Eric Craswell dell’Australian National University ha lanciato il sasso:«Nel 2033 – dice – la produzione mondiale di fertilizzanti a base di fosforo toccherà il picco. E anche qualora il picco arrivasse qualche anno dopo, i fosfati rocciosi diventeranno sempre più scarsi e i loro prezzi saliranno».
A dire il vero, nel 2009 i prezzi del fosforo sono scesi ai minimi, complice il calo dell’economia. Ma la questione delle riserve e dell’eventuale picco, è un po’ più complicata. «Non è vero che arriveremo presto al picco, le riserve sono immense», controbatte Patrick Zhang, direttore del Florida Institute for Phosphate Research. Secondo lo United States Geological Survey (Usgs), dalle miniere del mondo sono uscite l’anno scorso quasi 160 milioni di ton-nellate di fosfati rocciosi ( una serie di diversi minerali) e le riserve globali ammontano a 16 miliardi di tonnellate. Dunque, al ritmo odierno di consumo, avremmo a disposizione fosforo per appena 101 anni.
Il guaio però è che, fra la popolazione che cresce e la maggior domanda di calorie da parte di quelli che escono dalla povertà, c’è chi stima che la produzione dovrà crescere fra il 50% e il 100% da qui a metà secolo. Così, i 101 anni si accorciano: forse al vicino 2033, o forse ben più in là.
Ma qui sta il punto: l’Usgs considera "riserve" le «risorse identificate che possono essere estratte con profitto e con le odierne tecnologie». Fuori da questa definizione – quindi includendo il fosforo difficile, improbabile e impossibile da raggiungere – le riserve planetarie si moltiplicano per sette: 112 miliardi di tonnellate.
Ma il problema resta. Anche perché, tanto per parlare chiaro, il fosforo non è una risorsa rinnovabile. Il suo ciclo produttivo a servizio della civiltà umana è improntato allo spreco: lo estraiamo dalle miniere, ci facciamo i fertilizzanti, lo usiamo per le colture che alimentano noi e il nostro bestiame. Infine, inopinatamente, lo facciamo scivolare via chissà dove, senza che il nostro organismo ne trattenga neppure un misero uno per cento. «E il fosforo – rimarca Craswell –non né sintetizzabile né riproducibile in laboratorio».
E qui entra in gioco la geopolitica. Il 72% di quelle riserve così strategiche per il futuro alimentare del pianeta, sta in tre paesi. Nell’ordine: Marocco (non solo nel contestato Sahara Occidentale), Stati Uniti e Cina. Il Brasile, uno dei grandi granai del mondo, è in settima posizione, eppure non è autosufficiente. Il continente che ha più fame è anche quello che dispone di più fosforo: l’Africa. Il Marocco – che a seconda delle stime possiede fra il 50 e il 70% delle riserve mondiali – è il terzo produttore, ma il primo esportatore al mondo. Nell’Unione Europea, invece, di fosfati non c’è traccia. In questo scenario, già un paio d’anni fa, la Cina ci ha messo sopra un bel dazio del 135%, al fine di scoraggiarne apertamente l’esportazione.
Qui non stiamo parlando del breve periodo, ma del lungo. La sostituzione degli escrementi animali con i fertilizzanti a base di fosforo, azoto e potassio ha contribuito alla Rivoluzione verde degli anni 60, quando le profezie malthusiane di sventure alimentari si infransero sui successi della scienza e della tecnologia. Da qui a metà secolo, quando la popolazione passerà dagli attuali 6,8 miliardi agli stimati 9,2 miliardi di esseri umani, c’è per forza bisogno di un’altra Rivoluzione verde. In questo scenario, qualunque sia la verità sulle quantità di fosforo economicamente recuperabili, la prospettiva di protezionismi, di crescenti scarsità e di prezzi alti, non è una certo bella notizia.
A dire il vero, non è una bella notizia neppure per le future generazioni. Si sa: 101 anni passano in fretta.
Chissà se Marius Kloppers ha lanciato l’affondo su Potash proprio con l’idea di mettere le mani sul 6% del fosforo prodotto nel mondo. È impossibile saperlo, almeno su due piedi. Del resto, questa è una storia di lungo periodo. Non saranno tempi geologici, ma per il destino di una risorsa preziosa come il fosforo, i prossimi trent’anni di agricoltura, di scienza e di geopolitica, saranno cruciali.