Varie, 20 agosto 2010
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Ashtiani SakinehMohammadi
• Iran 1967. Accusata di adulterio e di complicità in omicidio, rischia la condanna a morte per lapidazione • «[...] fu condannata sulla base di una confessione che il suo avvocato Mohammad Mostafei denuncia essere stata estorta dopo una punizione di 99 frustate. È stata accusata di aver avuto rapporti con due uomini fuori dal matrimonio, ma suo marito era morto, e non è mai stato chiarito il tipo di rapporto avuto dalla donna. All’interno delle istituzioni iraniane si è aperto un dibattito sotterraneo, ma profondo sulla legittimità della condanna e sulla vergogna che ricadrà su tutta la Repubblica islamica se ancora una volta una donna verrà lapidata. Un confronto che dal 2007 di fatto ha bloccato l’esecuzione. [...]» (Vincenzo Nigro, “la Repubblica” 12/7/2010) • «[...] ha già pagato per il suo “crimine” (da lei confessato, occorre ricordare, sotto tortura, e che secondo i suoi accusatori consiste nell’aver avuto rapporti amorosi al di fuori del matrimonio in due occasioni) subendo la pena di 99 frustate, cui è stata sottoposta in presenza di uno dei suoi due figli. Ma ecco che [...] spunta fuori una nuova e vaga imputazione, per la quale è prevista la pena di morte. E non di una morte qualsiasi, ma di morte per lapidazione! [...] nel corso di un programma televisivo molto seguito, il regime ha mandato in onda la cosiddetta “confessione” della donna la quale, con indosso un chador nero che la copriva per intero lasciando emergere solo un occhio e il naso, stringeva in mano un foglio di carta, quasi costretta a recitare una parte che stentava ad apprendere a memoria. Mentre il doppiaggio in farsi copriva la sua stessa voce che si esprimeva in azero, sua lingua madre, Sakineh ha confessato la sua presunta “complicità” nell’omicidio del marito. Il suo avvocato, Hutan Kian, non ha perso tempo per ricordare che Sakineh era già stata assolta da tale accusa nel 2006. Tralasciando i sospetti più ovvi, che non è riuscito tuttavia a dissipare sulla reale identità della donna apparsa quella sera sugli schermi televisivi, nascosta sotto il velo integrale, il legale ha affermato che, a dispetto delle apparenze, la donna era stata costretta a pronunciare quella dichiarazione, ancora una volta sotto tortura. Infine, l’avvocato ha ricordato che tali parole erano chiaramente in contraddizione con quelle riportate dal Guardian il 6 agosto in cui la stessa Sakineh spiegava di essere già stata prosciolta da quell’accusa infamante nel 2006. È chiaro che le autorità iraniane hanno mentito spudoratamente, ripescando un’imputazione già da tempo scartata, con l’unico scopo di seminare confusione nell’opinione pubblica e prepararla a una rapida esecuzione della condanna a morte. Kian ha aggiunto che la “giustizia” si accanisce sul suo caso solo “perché è una donna”, che vive “in un Paese dove alle donne vengono negati i diritti più elementari”. A Sakineh viene negato il diritto fondamentale a reclamare giustizia per il semplice fatto che le è stato impedito l’accesso a un processo equo, in una lingua a lei comprensibile. (“Quando il giudice ha pronunciato la sentenza — ha riferito la donna al Guardian — non ho nemmeno capito che ero stata condannata alla lapidazione, perché non conosco il significato della parola rajam. Mi hanno chiesto di firmare la condanna, e l’ho fatto, ma quando sono tornata in prigione e le mie compagne di cella mi hanno detto che sarei stata lapidata, ho perso i sensi”). Tutto ciò è stato confermato dal suo precedente difensore, l’avvocato Mohammad Mostafaei, che non aveva esitato ad attirare l’attenzione internazionale sul suo caso e che per il suo interessamento si è visto piombare addosso un mandato di arresto (si è salvato per un pelo, rifugiandosi in Turchia [...]. Non così sua moglie, Fereshteh Halimi, che è stata arrestata e trattenuta in ostaggio.) Infine, appare chiaro che, senza soffermarsi sull’orrore della condanna, i cui dettagli più ripugnanti non trovano posto in questa sede, la lapidazione è consentita dalla “legge” iraniana esclusivamente quando i parenti della vittima ne fanno richiesta (e, occorre ribadirlo, non è nemmeno questo il caso di Sakineh e della sua famiglia). [...]» (Bernard-Henri Lévy, “Corriere della Sera” 19/8/2010).