Sergio Rizzo, Corriere della Sera 20/8/2010, 20 agosto 2010
IL CANE DI VASCO EI TRUCCHI ANTI TASSE
Per settimane si sono barricati in casa aspettando che i federali venissero a prenderli. Non pagavano le tasse da molto tempo, finché il tribunale li ha condannati a cinque anni di carcere. E loro non ci sono stati. Armati fino ai denti hanno sprangato le porte in attesa della polizia, proclamando di «lottare per la libertà». Proprio così hanno detto: «per la libertà». Ma forse i coniugi Ed e Elanie Brown, che tre anni fa sono stati al centro negli Stati Uniti di un caso nazionale, avevano semplicemente sbagliato posto: credevano di essere in Italia. Il Paese dove l’evasione fiscale non è semplicemente una patologia, ma l’effetto di una cultura radicata a fondo. L’ha ammesso implicitamente ieri, sulle colonne del Sole24ore, il direttore dell ’ Agenzia dell e entrate Attilio Befera. «Quello che ancora non si afferma è il cambiamento del modello culturale che ha favorito l’evasione», ha scritto, mostrandosi esterrefatto per aver letto in un’intervista «che tutto quello che si possiede, anche il proprio cane, è intestato a una società per limitare i danni patrimoniali». Quell’intervista è stata pubblicata da Repubblica il giorno prima di Ferragosto e l’intervistato è nientemeno che la rock star Vasco Rossi, finito nel mirino del fisco per una società, da lui posseduta al 90%, a cui è intestata la barca «Jamaica». Indispettito perché la notizia era trapelata sulle agenzie, dopo aver dichiarato «sono un cittadino onesto», il cantante ha spiegato: «Ho usato questa cautela per mettere un limite a eventuali ritorsioni contro la mia persona fisica per eventuali danni causati dalla barca o dall’equipaggio a terzi. Trovo questo oltre che lecito anche ragionevole e per nulla elusivo. Anche il mio cane è intestato a una società, perché se morde qualcuno si pagano giustamente i danni, ma si evita che qualcuno possa approfittarsene » . Difficile comprendere la differenza fra essere morsi dal cane di Vasco Rossi piuttosto che dal cane della società di Vasco Rossi. Ma se la società della barca (in leasing) si chiama «Giamaica no problem» (!) ci sarà pure un motivo.
Anche perché Vasco non è il solo a pensarla così. Sono migliaia e migliaia le società a cui i proprietari intestano yacht e natanti. Il problema, o meglio, il «problem», è che sono pressoché tutte ditte di charter con un solo cliente, guarda caso il loro azionista. In italiano si chiamano società di comodo e non servono soltanto a pagare meno tasse sulla barca, ma a far scomparire lo yacht dai radar del fisco nel caso di accertamenti personali. Se l’Agenzia delle entrate mette il naso nella tua denuncia dei redditi, scoprirà che non hai un motoscafo da un milione di euro, ma una società di charter del capitale di 10 mila euro. Per giunta in perdita. Meglio della bandiera liberiana o panamense.
Ma le società di comodo non servono solo per le barche. Moltissimi ci mettono dentro anche la villa al mare, il casale in campagna, gli appartamenti in città. Poi ci sono le fuoriserie: Ferrari a centinaia, Porsche, Audi, Mercedes, Bmw, Lamborghini e Suv a rotta di collo. Mascherate da auto aziendali. Anche in questo caso non per risparmiare sulle tasse della macchina, ma perché non figuri nella denuncia dei redditi. A uno schermo societario, in Italia, non rinuncia nessuno: diversamente non sarebbero in perdita quasi metà (per l’esattezza il 45%) delle società di capitali. Ma c’è anche chi alla maschera di una srl o di una spa preferisce direttamente quella di una società fiduciaria. Si mettono le azioni là dentro e si può dormire fra due guanciali.
Per non parlare delle scatole dove finiscono i dividendi: spesso hanno sede all’estero, magari in un Paese comunitario. Tipo Lussemburgo. Poi però, grattando la vernice, salta fuori che la società è controllata da un’altra società che sta invece alle Isole Cayman o a San Marino. Migliaia e migliaia. E per non dire dei vip con residenza (spesso fittizia) nei paradisi fiscali, oppure a Montecarlo. Le cronache ne sono piene.
Fin qui i comportamenti dove il confine fra evasione ed elusione è talvolta impalpabile. Oltre, ci sono le frodi. E anche in questo vantiamo una discreta specializzazione. Le società che aprono e chiudono i battenti nel giro di pochi mesi, per esempio: si chiamano cartiere perché servono soltanto a fare false fatture che permetteranno di chiedere il rimborso dell’Iva mai pagata. Un caso di scuola, che si può declinare in vari modi. Per esempio, come ha scoperto ad aprile di quest’anno la Guardia di finanza, con un giro di fiduciarie fra la Svizzera e il Lussemburgo. C’era coinvolto perfino un prete. Ma la tecnologia del crimine fiscale, purtroppo, è in continua evoluzione. Vi si dedicano menti raffinate, come quella che ha architettato una frode ai danni del Fisco arrivando a utilizzare i modelli 730: aveva creato una rete di finte società, formalmente gestite da una signora ottuagenaria, che erogavano false prestazioni detraibili dalle denunce dei redditi di comuni cittadini. Impiegati, infermieri delle Asl, pensionati. Con un danno di svariati milioni di euro per l’erario.
Roba da far impallidire gli artigiani dell’evasione. A partire dai commercianti refrattari alla ricevuta fiscale, i quali dichiarano redditi inferiori a quelli del proprio dipendente. Per continuare con gli stabilimenti balneari che dicono di guadagnare più d’inverno che d’estate. Nessuno, però, riesce a battere i veri artisti. Ovvero, coloro che per il Fisco non esistono nemmeno. Una volta scoprirono una donna, a Pavia, che per anni aveva gestito una casa di riposo per anziani totalmente abusiva.
Interrogato dal giudice che sta indagando sulla vicenda della cosiddetta P3, il «faccendiere» Flavio Carboni ha dichiarato senza fare una piega di non possedere beni patrimoniali avendone comunque la disponibilità. Tecnicamente è possibile. Ma quando si scopre che dall’anno di imposta 2002 non ha più presentato una dichiarazione dei redditi, come i poveri, allora non si può davvero trattenere la sorpresa.
Non c’è dubbio che l’evasione fiscale in Italia sia anche una questione culturale. A differenza degli Stati Uniti, dove non si scherza (fra il 2002 e il 2007 hanno sbattuto dentro 5 mila persone), qui non è mai stata considerata un peccato. Più che altro, una marachella. Nel 2002 l’avvocato Attilio Pacifico, che sarebbe stato condannato insieme all’ex ministro Cesare Previti per l’affare Imi-Sir, ammise candidamente in un colloquio con un giornalista: «Sì, sono un evasore fiscale. E allora, che mi volete fare?». E in una lettera al Corriere lo stesso Previti scrisse: «Se è vero che negli anni passati ho avuto disponibilità all’estero, è altrettanto vero che questa situazione l’ho regolarizzata e sanata anche attraverso un condono tombale, pagando quanto dovuto per legge». Già, il condono.
Quale contributo hanno dato le sanatorie a diffondere, come vorrebbe Befera, «la cultura della legalità fiscale»? Il primo condono dell’età moderna lo fece Bruno Visentini, nel 1973. Replicò Rino Formica, nel 1982. E ancora Formica, nel 1991. Per arrivare al 2002, con Tremonti. Poi gli scudi, a ripetizione, per chi aveva esportato illegalmente capitali. Questione forse di Dna italico, visto che la sanatoria capostipite risale addirittura all’epoca dell’imperatore Adriano (che era però di origini iberiche). Ma è difficile credere che la politica oggi non abbia le sue responsabilità. Per questo una domanda è inevitabile. Ora che il suo governo, impossibilitato a ridurre le imposte, sostiene di voler combattere a fondo l’evasione, ripeterebbe Silvio Berlusconi quel che disse il 18 febbraio del 2004, e cioè che evadere tasse troppo alte è «moralmente giustificabile»?