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 2010  agosto 20 Venerdì calendario

I CLACSON A MEZZANOTTE E I POLIZIOTTI BEN PAGATI: COSÌ BAGDAD VUOLE RINASCERE

Bagdad — «Siamo tutti in attesa. Come se fossimo sospesi tra il baratro e la speranza. Temiamo di illuderci ancora, eppure in qualche modo dobbiamo guardare avanti», esclama Nada Shaker lasciando frustrata il piazzale bollente sotto il sole di fronte all’università principale della capitale. Per la terza volta in tre giorni è venuta per sostenere l’esame per i corsi di dottorato. E anche ora ha scoperto che non c’è nessuno: aule vuote, niente appelli, nessuno a cui chiedere informazioni, se non un vecchio bidello che le consiglia di tornare settimana prossima. «Ho il sospetto che vogliano soldi. Corruzione? Dicono di non trovare neppure più la mia domanda di ammissione. Forse è meglio che riparta», sbotta rabbiosa. Nel gennaio 2006, a 21 anni, era scappata in Dubai. «C’erano attentati e morti ogni giorno. Una mia amica era appena stata rapita. Fuggii all’estero per studiare farmacia. Mi sono laureata a pieni voti. Poi mi hanno detto tanti amici che in Iraq si stava finalmente meglio. Ed è vero, almeno le violenze sono diminuite. Ma per il resto c’è da mettersi le mani nei capelli».

Il suo travaglio è emblematico della situazione del Paese nella fase cruciale del ritiro dei corpi combattenti americani sette anni e cinque mesi dopo l’invasione Usa e la caduta della dittatura di Saddam Hussein. Un cambiamento che si rispecchia anche nei monumenti. Nel 1991 Kanan Mekiya, un noto intellettuale perseguitato dal regime che era riuscito a fuggire negli Stati Uniti, scrisse «Il monumento», un libro che illustrava la «volgarità totalitaria» delle statue e delle opere pubbliche volute da Saddam.

Oggi è diverso. In piazza Furdus, dove c’era la statua in bronzo del dittatore immortalata dalle telecamere mentre viene faticosamente abbattuta il 9 aprile 2003, ora torreggia una specie di sgorbio bluastro dominato da una mezzaluna bucherellata. La chiamano «Statua della libertà», in realtà sembra la triste metafora di questo lungo, infinito dopoguerra cosparso di orrori e in attesa di essere sepolto per sempre. Serve un restauro anche alle piattaforme delle due gigantesche spade che facevano da cornice al piazzale delle cerimonie. Curdi e sciiti avrebbero voluto abbatterle, annullarle quali simboli del recente passato a dominazione sunnita, che tante sofferenze ha causato tra la loro gente. Il compromesso è stato quello di lasciare le lame, ma togliendo i giganteschi calchi in bronzo che le sostenevano e si dice fossero stati modellati sul pugno di Saddam. Ora però il regime iraniano fa pressione perché vengano rimosse anche le centinaia di elmetti dei soldati caduti nella guerra tra i due Paesi negli anni Ottanta e cementati alla base. A giudizio di Teheran: un inutile memento dello scontro storico tra i due Paesi.

Le forze di sicurezza

Il parere che va per la maggiore è che il nuovo ordine debba basarsi su esercito e polizia nazionali. Ma, tra le decine di persone intervistate negli ultimi sei giorni a Bagdad, quasi nessuno si è detto certo che possano colmare il vuoto lasciato dagli americani. Almeno per il prossimo futuro. «Possiamo garantire l’ordine interno. Non le minacce esterne. Gli americani ci lasciano a metà dell’opera, non possono abdicare ai loro doveri», sostiene tra i tanti Abdul Hadi Hassan, deputato dello «Stato di Diritto», il partito del premier Nouri al Maliki. Dopo lo smantellamento dell’apparato militare baathista, voluto con metodica cecità dall’amministrazione Bush nel 2003, le forze di sicurezza hanno cominciato a essere ricostruite sotto la guida Usa e Nato solo dalla metà del 2004. Oggi i poliziotti sono circa 440.000, i militari 220.000. Però non esiste praticamente aviazione. I sistemi di controllo e monitoraggio dello spazio aereo dipendono quasi interamente da quelli americani.

Quanto alla marina: anche l’Italia ha contribuito alla flottiglia composta da una quarantina di motovedette incaricate di pattugliare i terminali petroliferi e il delta lungo lo Shatt El Arab. «Uno dei fatti positivi è stato il cospicuo aumento degli stipendi a soldati e ufficiali negli ultimi anni. Tra soldati e ufficiali, anche nella polizia, oscillano tra i 600 e 800 dollari mensili. Oggi è meno facile corromperli», afferma il maggior generale Claudio Angelelli, vicecomandante della missione Nato composta da 14 nazioni (13 membri Nato oltre all’Ucraina), che conta nel Paese 164 istruttori, di cui 78 italiani.

La ricostruzione non decolla

Tutti i grandi alberghi della capitale (Rasheed, Palestine, Sheraton, Hamra, Mansoor) sono stati requisiti per le ristrutturazioni in vista del summit della Lega Araba previsto in marzo. «Sarà la grande occasione del rilancio politico e soprattutto economico. È la scommessa per il futuro», sostengono nei circoli diplomatici occidentali. Ma quando si va a visitarli, tra polvere e calcinacci, è evidente che nessun lavoro è iniziato. Non ci sono clienti e neppure operai. «La paralisi politica condiziona tutta la vita economica», dice Fawzi Hadi, vice direttore di Azzaman (Il Tempo), noto quotidiano legato ai circoli sunniti.

Un problema che sta diventando molto grave. Di fatto è dalle elezioni parlamentari del 7 marzo che non vengono firmati contratti importanti. L’impasse negoziale tra il blocco sciita legato a Maliki e quello sunnita di Ayad Allawi contribuisce al ristagno economico. Oltre il 90% delle entrate dello Stato (60 miliardi di dollari annuali) derivano dalla vendita del greggio. L’estrazione è al momento attestata sui 2 milioni di barili quotidiani. I ministeri dunque hanno budget rilevanti a disposizione.

Ma la macchina decisionale è inceppata. E non aiutano i tagli alla corrente sempre più rilevanti. Oggi nei quartieri più poveri della capitale le ore giornaliere di erogazione dell’elettricità pubblica sono simili a quelle del 2003. Ci guadagnano i rivenditori di generatori cinesi. Sabah Abdel Rachman, proprietario di un negozio di articoli elettrici nella centrale Karrada road, rivela che negli ultimi due mesi le sue vendite sono salite del 50%. Conseguenze: se una volta valeva il detto «piove americani ladri», ora si è tornati al più tradizionale «governo ladro».

Lo spettro della violenza

Indubbiamente la sicurezza è migliorata rispetto a due o tre anni fa. Ovunque sono visibili posti di blocco di esercito e polizia. Però gli iracheni temono che la situazione sia reversibile verso il peggio. In luglio il numero dei morti mensili è passato da medie attorno ai 300 a quasi 500. E ci si comporta di conseguenza. I dieci giorni del festival internazionale previsti nel Teatro Nazionale a settembre vedranno le manifestazioni terminare alle otto di sera. «Una misura precauzionale. Più tardi la gente non vuole stare fuori casa», sostengono gli organizzatori, sebbene il traffico nella capitale sia oggi molto intenso anche nelle ore tarde.

E non cessa la fuga dei cristiani verso l’estero. «Al cuore della violenza sta il problema profondo dell’identità collettiva irachena», analizza Jean Sliman, arcivescovo latino di origine libanese, in Iraq dal 2001. «È scomparsa nella polvere la vecchia identità laica baathista. Ma appare impossibile trovarne una sostitutiva che valga per tutti».