Simonetta Fiori, la Repubblica 20/8/2010, 20 agosto 2010
LA STORIA D’ITALIA NON È UN FAI-DA-TE
Anche la storia di un libro, delle sue diverse edizioni, può restituire le trasformazioni culturali di un paese. E può accadere che un grande studioso della memoria – dei suoi luoghi, dei suoi miti, dei suoi simboli – prenda le distanze da un titolo che in origine appariva seducente e innovativo, per scolorire quindici anni dopo nell´indistinto dello stereotipo. È il caso di Mario Isnenghi e del suo I luoghi della memoria, straordinaria enciclopedia dell´Italia unitaria, riproposta ora da Laterza dopo la prima edizione del 1996. «Tanto suggestiva e plastica al suo apparire, la formula è diventata una frase fatta, adibita alle più diverse incombenze di turismo culturale», dice lo storico riprendendo in mano il suo vecchio lavoro, una storia d´Italia scritta a più voci attraverso materiali inusuali come le piazze e le osterie, le canzoni popolari, i grandi riti del calcio e del ciclismo insieme a un variegato repertorio di icone che spaziava dal tricolore all´utilitaria. Un tapis roulant attraverso le diverse memorie - così lo definiva l´autore - che serviva a riaffermare un´identità nazionale già allora fortemente contestata. Ma la proliferazione di liturgie memoriali, germogliate in questi ultimi decenni, rischia di apparirgli ora come «una pianta infestante» che toglie ossigeno alle piante vicine, alla «fisiologia dell´oblio» e soprattutto alla «storia». Un abuso della memoria - per riprendere il lavoro di Todorov - che finisce per scavare irrimediabilmente il solco tra storia e discorso pubblico, oggi dominato «da un anarchicheggiante fai-da-te, in cui ogni asserzione del passato vale l´altra e tutte sono ugualmente indimostrabili e insignificanti».
Il cortocircuito è destinato a esplodere nel centocinquantesimo anniversario dell´unità d´Italia, su cui sono già cominciati i cannoneggiamenti antirisorgimentali da parte leghista ma anche filoborbonica e ultraclericale. Già da un paio d´anni condirettore della rivista Belfagor, Isnenghi vi replica ironicamente anche nella sua nuova edizione di Garibaldi fu ferito, appena uscita da Donzelli. «Figurarsi tutto il Risorgimento come congiura massonica e imposizione dei protestanti inglesi può valere a tardive vendette e ideologici risarcimenti. Ma certo, sporcare con le politiche della memoria la storia così come è stata non porterà a sostituirla con nessuna antistoria. Si può solo riuscire ad essere - tutti - ancora più confusi, disancorati, poveri di autostima».
Oggi rischiamo di buttar via il Risorgimento così come abbiamo tentato di buttar via la Resistenza. Qual è il nesso politico e culturale di questa liquidazione? «È la famosa morte delle ideologie», risponde lo studioso. «L´esaurimento delle grandi narrazioni, la fine della storia, addirittura. Siccome i grandi progetti non ci riesce più di pensarli e realizzarli noi neghiamo e sporchiamo anche quelli che hanno fatto gli altri. Processiamo il Risorgimento, riduciamo la resistenza a truci ammazzamenti». In un´opera recente della Utet, Italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai giorni nostri, Isnenghi analizza tutte le ragioni e le motivazioni della disunità, le controspinte per non fare l´Italia. «I pro prevalsero sui contro - questa è storia - ma ce li portiamo dentro e ora esplodono. All´attacco ci vanno i leghisti ossia i frantumatori. Stufo dello sterco buttato addosso, qualche meridionale s´inventa la mossa del cavallo, ossia un meridionalismo reazionario tirando fuori Francesco II, e i briganti. Dei tre fronti i meno loquaci paiono gli eredi del Papa-Re. In effetti hanno sbancato il banco e possono sentirsi i vincitori: nel carnevale delle memorie, chi si ricorda oggi che ci fu un´Italia, un governo italiano che osò andar contro la volontà di un Papa?».
A fronte di un discorso pubblico impazzito, di un proliferare non più governabile di memorie e di soggettività - e i siti Internet sono ancora più «brulicanti di sospetti e orrori» - Isnenghi sottolinea la vitalità di una storiografia che esercita il suo mestiere, in una crescente divaricazione tra senso comune ed esiti della ricerca. «La crisi non è certo negli studi storici, ma nello iato tra queste ricerche e le dinamiche sociali e culturali disgregative nelle quali siamo immersi». Non è in gioco lo stile comunicativo degli storici, ma «un complesso di spinte convergenti, anche filosofiche non solo di bassa cucina politicante» che ha prodotto «lo sbriciolarsi dell´oggetto, la messa in dubbio della realtà fattuale, una discorsività labile e fuggevole».
Può colpire, nella più recente pubblicistica storica, un appassionato «neorisorgimentismo» che accomuna studiosi di culture politiche differenti - ex comunisti, cattolici e liberali - con percorsi talvolta non privi di ripensamenti. Pochi giorni fa nell´articolo "Nostalgia di Cavour" Ernesto Galli della Loggia lamentava a ragione la scarsa popolarità del Risorgimento, relegato anche ai margini della circolazione scolastica, mentre solo tre anni fa con un editoriale che sbigottì il liberale Giuseppe Galasso tendeva a interpretarlo come l´atto originario di una storia nazionale attraversata da violenza e illegalità. Come spiega Isnenghi questa nuova contagiosa (condivisibile) apologia risorgimentale? «È una difesa reattiva all´attacco sferrato a quella tradizione. Forse è successo anche ad altri quel che è accaduto a me o a studiosi come Silvio Lanaro. Novecentisti quali eravamo, abbiamo cominciato a ragionare sulla genesi dello Stato così vilipeso, opponendo alla spinta frammentatrice del discorso pubblico un ragionamento storico illuminista in difesa dello Stato e di una dialettica civile decorosa».
Grazie a Bossi, in sostanza, l´incontro con Garibaldi? «Sono un figlio bastardo della Lega», risponde Isnenghi. «Come veneto ci devo star dentro e pensare sopra, come veneziano ho potuto tenerne il collo fuori. E stato lui, il "Cattaneo" dei nostri giorni, a spingermi ad andare a vedere, facendo di me anche un ottocentista. Presa questa strada non potevo non incontrare Garibaldi. Nell´82, poi, ho anche scoperto di avere un avo garibaldino, e dunque qualche ragione d´ordine famigliare per schierarmi. E per schierarmi, sì, mi sono schierato».
Ma perché rivelare solo oggi la storia di quell´avo orologiaio partito da Trento per andare con i Mille? «Immagino che solo oggi, a questi lumi di luna, un certo orgoglio di immedesimazione abbia prevalso sul riserbo. E poi anche questo di Enrico è un micro-caso di studio per me significativo. Ho potuto constatare che i discendenti diretti di Enrico si radunano una volta l´anno in suo nome, ma è un ricordo spoliticizzato che prescinde dalla sua camicia rossa, starei per dire che a fatica gliela perdona. Lo studioso della memoria si trova in questo caso davanti agli imprevedibili smottamenti della memoria. Così è lo stesso avo garibaldino a suggerirmi di non prendere troppo sul serio né la memoria né gli studi sulla memoria».