Federico Rampini, Repubblica 20/8/2010; Raffaella De Santis, la Repubblica 20/9/2010, 20 agosto 2010
LA FABBRICA D’ÉLITE
Per trovare gli studenti migliori del mondo, i selezionatori hanno organizzato una tournée di reclutamento in quattro continenti, sono andati di persona a fare dei "provini" a Shanghai e a Buenos Aires, a Vienna e a Sidney. Le eliminatorie sono spietate: su 9.000 candidati solo 150 sono stati ammessi. Nessuna speranza per chi non ha almeno 730 punti nel test di matematica, lo stesso filtro usato dalle più prestigiose università americane della Ivy League. Così partirà a settembre un esperimento senza precedenti: la "Megaversity", prima università veramente globale, la superfacoltà destinata a formare la nuova élite mondiale. Sarà un clone della New York University (Nyu) con sede nell´emirato arabo di Abu Dhabi. E´ un´iniziativa pionieristica, può segnare l´inizio di una nuova tendenza. Forti di una superiorità ancora incontrastata, le grandi università americane diventano imprese multinazionali, l´istruzione superiore made in Usa si trasforma in un modello universale e un prodotto d´esportazione. Lo fa con un college di Liberal Arts, che include quindi facoltà umanistiche, in omaggio alla rivalutazione di un insegnamento multidisciplinare sempre più richiesto sul mercato del lavoro.
Le università americane hanno da tempo dei campus all´estero, tra le prime ad aprirne uno in Italia ci fu la Johns Hopkins mezzo secolo fa. Ma finora si trattava di succursali-satellite, che offrivano ai docenti e agli studenti della "casa madre" l´opportunità di un periodo all´estero. Con la creazione della Nyu di Abu Dhabi si passa a uno stadio diverso. Sarà una università totale, autosufficiente, con un curriculum di corsi completo, che in pochi anni arriverà a 2.000 iscritti e rilascerà titoli di laurea. Con standard di qualità fantastici a cominciare dal rapporto numerico docenti-studenti: un prof per otto allievi. Perciò il preside di Nyu, John Sexton, ha puntato fin dall´inizio molto in alto. Ha affidato il processo di selezione degli iscritti all´Institute of International Education, lo stesso che gestisce l´assegnazione delle ambitissime borse di studio Fulbright. Sono stati individuati come base di reclutamento i 900 migliori licei del mondo intero. Ciascuno di questi istituti ha dovuto segnalare i suoi due maturandi più meritevoli, e così è partita la scrematura dei migliori. La prima infornata di iscritti appartiene a 39 paesi, parla 43 lingue. Dopo gli americani le nazionalità più rappresentate sono arabi, cinesi e russi. Un tipico programma di studi quadriennali gli offrirà la possibilità di fare esperienze in altri campus della Nyu da New York a Berlino. L´esperimento è già considerato un successo, due mesi prima che la nuova università apra i battenti per il suo anno accademico inaugurale. Il governo cinese infatti ha contattato Sexton con la richiesta che Nyu apra un´altra sede globale a Shanghai. E´ un passo significativo, in una fase in cui la Cina ha perso quasi tutti i complessi d´inferiorità verso l´America e si comporta come una superpotenza dalle ambizioni planetarie. L´unico settore nel quale Pechino è ancora disposta a riconoscere una leadership americana, e a considerarla come un modello, è l´università.
I dirigenti cinesi prendono atto di una realtà incontestabile. Due ricercatori cinesi, della Shanghai Jiao Tong University, hanno stilato una classifica mondiale delle università che non può essere sospettata di pregiudizi filo-americani. Secondo quella graduatoria 17 sulle 20 migliori università mondiali si trovano negli Stati Uniti, e sono americane più del 50% tra le prime cento. Nella produzione manifatturiera e nell´export l´America ha dovuto subire il sorpasso della Cina. Come giacimento di capitali l´Asia è passata in testa. Sul piano politico-militare l´influenza di Pechino sta infiltrandosi in tutte le aree del mondo che furono dominate dall´Occidente. Ma nella formazione dei cervelli, l´impero americano ancora non teme rivali.
William Brody, l´ex presidente della Johns Hopkins, in un celebre saggio su Foreign Affairs nel 2007 si chiedeva "se le università americane conquisteranno il mondo come a suo tempo fecero Boeing, Ibm, Intel e Microsoft nei loro settori". Oggi la risposta è affermativa. Un´altra classifica autorevole, l´Academic Ranking of World Universities, vede 17 università americane piazzarsi fra le prime 20 mondiali. In mezzo a questa supremazia schiacciante del modello americano si distinguono due eccezioni inglesi, Cambridge (quarta) e Oxford (decima a livello mondiale). Ma queste "mosche bianche" potrebbero scomparire, secondo quanto ha scritto su Repubblica lo studioso inglese Timothy Garton Ash, che divide i suoi impegni accademici tra Oxford e la californiana Stanford. I finanziamenti privati consentono a Stanford di spendere 70 milioni di dollari all´anno solo per mantenere agli studi i giovani che non hanno un reddito sufficiente a pagare la retta (38.700 dollari annui). Quei 70 milioni versati per garantire il diritto allo studio dei meno abbienti sono una modesta frazione del rendimento annuo generato dal gigantesco fondo di dotazione di Stanford (12,6 miliardi di dollari). Tra pubblico e privato, gli Stati Uniti investono ogni anno quasi il 3% del loro Prodotto interno lordo nei finanziamenti all´università. E´ il doppio, in proporzione, rispetto a tutti gli altri paesi industrializzati. Solo nelle spese militari l´America mantiene un simile distacco rispetto a tutti gli altri.
E la rincorsa asiatica? Se c´è un terreno su cui l´Estremo Oriente non è riuscito a ridurre le distanze, è proprio questo. E le conseguenze possono essere fatali. Basta pensare al paradosso del Giappone, come lo descrive il presidente della Yale University, Richard Levin: "Dagli anni Cinquanta agli anni Novanta l´economia giapponese è cresciuta molto più rapidamente di quella americana, finché c´era un sovrappiù di manodopera che dalle campagne si trasferiva all´industria. Dagli anni Novanta in poi, il Giappone è cresciuto molto meno dell´America. Sarebbe successo lo stesso se Microsoft, Apple e Google fossero nate a Tokyo anziché sulla West Coast degli Stati Uniti?"
La superiorità del modello americano si auto-alimenta: l´università è un laboratorio di innovazioni, quindi un vivaio di nuove imprese; da questa sua funzione deriva anche la forte propensione del capitalismo americano a finanziare le istituzioni accademiche. Non si ferma mai la ricerca di nuove formule per facilitare il passaggio dalla ricerca pura alle applicazioni, dai brevetti tecnologici alla creazione di aziende. L´ultima ricetta sono gli incubatori di idee, detti anche "proof-of-concept centers". Il più celebre è il William von Liebig Center della University of California San Diego: dalla sua nascita nel 2001 ha già consentito la creazione di 26 nuove aziende, nate all´interno dei laboratori di ricerca delle facoltà. Proprio mentre il venture capital soffriva per la grande crisi finanziaria del 2008-2009, e i collocamenti di nuove società in Borsa crollavano, di colpo le università hanno accentuato il loro ruolo di supplenza. Gli incubatori di idee si sono moltiplicati, dall´università dello Utah a Georgia Tech, dalla University of Kansas alla University of Southern California.
I rivali dell´America cercano di imparare la lezione. "Cina e India - dice Levin - hanno grandi ambizioni, aspirano a creare delle università di eccellenza mondiale", quindi capaci di sfidare la leadership Usa. L´operazione ha una logica stringente secondo Levin: "La classe dirigente di Pechino sa che entro due decenni il vantaggio competitivo della Cina nell´industria manifatturiera dovuto al differenziale di costo del lavoro si sarà assottigliato; l´India raggiungerà quella soglia in trent´anni. Entro quell´orizzonte di tempo i due giganti asiatici devono dotarsi di una capacità d´innovazione". Ma colmare la distanza con gli Stati Uniti non sarà facile. Non tanto sul terreno dei finanziamenti: è vero che l´America oggi spende sette volte più della Repubblica Popolare per finanziare la ricerca pura, ma col tempo questo divario può essere colmato grazie alla crescente prosperità cinese. Quello che è più difficile trapiantare altrove - soprattutto in Cina per la natura autoritaria del suo regime - è "il rispetto del pensiero critico", come lo definisce Levin. L´università americana è una fucina d´innovazioni perché "incoraggia gli studenti a pensare autonomamente, a rimettere in discussione l´autorità accademica e la scienza esistente". E´ questo vantaggio che consente all´America di fare un nuovo balzo con l´esperimento della New York University di Abu Dhabi. E´ il modello di "Megaversity" che parte alla conquista della popolazione studentesca mondiale, e il suo punto di forza è uno slogan che fu popolare nel Maggio Sessantotto: l´immaginazione al potere.
Federico Rampini
LE CLASSIFICHE BOCCIANO L’ITALIA -
ROMA - Bocciate. L´ultima classifica delle migliori del mondo taglia fuori le università italiane dai primi cento posti. La graduatoria stilata ogni anno dall´Institute of Higher Education dell´ateneo Jiao Tong di Shanghai è una delle più note insieme a quella del Times Higher Education, la rivista londinese specializzata nel mondo accademico: la lista comprende cinquecento università scelte in base a indicatori di qualità come il numero di riconoscimenti internazionali e le pubblicazioni.
Per trovare una università italiana, tra quelle presentate dall´Academic Ranking of World Universities (ARWU) di Shanghai, bisogna scendere al 136esimo posto, dove compare la Statale di Milano. Seguono Pisa e la Sapienza di Roma, rispettivamente ai posti 140 e 141.
L´Italia soffre, ma non è sola. Soffrono i paesi dell´Europa mediterranea, falciati dalla top delle eccellenze: la Francia compare con solo tre università tra le prime cento, mentre Cambridge e Oxford si piazzano nella top ten. Vince l´America e comunque la cultura anglosassone. Oro, argento e bronzo a Harvard (sul podio ormai da anni), Berkeley e Stanford (che si scambiano le posizioni).
Ma quali sono i criteri di valutazione di Shanghai? La lista, che viene compilata a partire dal 2003, giudica le performance dei sistemi universitari basandosi su risultati concreti, come il numero dei premi Nobel o di medaglie Fields ricevute da studenti e ricercatori. Più riconoscimenti si conquistano, più si guadagnano posizioni. L´altro indicatore riguarda le pubblicazioni. Quelle che interessano la Jiao Tong sono infatti le riviste considerate ad alto "impact factor". Due in particolare: Science e Nature.
E qui nascono le prime prese di distanza. «Questo genere di classifiche non sono adatte a valutare l´area umanistica e letteraria, i cui studiosi non pubblicano certo su Science o Nature», spiega Luigi Frati, rettore della Sapienza. Aggiungendo però, a propria difesa, visto che l´ateneo romano è scivolato dalla posizione numero novantasette del 2005 a quella attuale, che il male principale è il taglio ai finanziamenti: «L´Italia investe ogni anno solo l´uno per cento del Prodotto interno lordo nell´università. La metà rispetto alla media dei paesi europei. E quest´anno con i tagli ulteriori va ancora peggio». Fa eccezione la performance di Tor Vergata, che guadagna punti e sale alla 347sima posizione. La Scuola Normale Superiore di Pisa è numero trecento, dopo l´Alma Mater di Bologna (215) e le università di Firenze e Torino. Anche Luigi Fabbris, membro del Comitato nazionale per la valutazione del sistema universitario, solleva dubbi sui criteri bibliometrici di Shanghai: «Preferiamo giudicare i servizi forniti agli studenti e l´impatto dell´insegnamento sulla didattica». I premi e le medaglie, insomma, non sarebbero tutto.
Raffaella De Santis