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 2010  agosto 20 Venerdì calendario

UN VIETNAM ALLA ROVESCIA

A sette anni dallo striscione con il quale George Bush annunciò «missione compiuta» in Iraq, Barack Obama si prepara a proclamare il «ritiro avvenuto», ma né la missione bushista, né il ritiro obamiano sono o saranno «compiuti».
Nella torpida, infastidita indifferenza popolare americana per una guerra rimossa come un brutto film che non si vuole più vedere, la strage dei sette anni – almeno centomila caduti finora per stare ai calcoli più restrittivi – costruita su false premesse nel 2003, continua con bollettini per raccontare una finta pace. Una guerra che non sarebbe mai dovuta cominciare non riesce a finire.
È vero che da qualche giorno i grandi convogli delle unità combattenti di prima linea stanno risalendo le piste dalle loro basi in Iraq verso il Kuwait in lunghe e sabbiose carovane. Ma al loro posto, resteranno, o arriveranno, 50 mila militari di supporto, più settemila "contractors", mercenari privati in appalto e due dozzine di nuovi elicotteri d´assalto pilotati da civili e mitraglieri ingaggiati dal Pentagono, per funzionare da stampelle per il gelatinoso esercito iracheno e per addestrare quelle forze di polizia e di sicurezza che dovrebbero, sempre "domani", garantire l´esistenza e la sopravvivenza della cosiddetta nuova democrazia tribale irachena. Mentre saranno venduti al simulacro di esercito nazionale mezzi blindati, equipaggiamento pesante, jeep corazzate chiamate Marp e nuovi caccia F16, con sicura soddisfazione della General Dynamics che li vende, nella versione senza optional, al prezzo di 20 milioni di dollari l´uno.
Da oggi, non saranno più, almeno nei progetti, i Marines, i fanti, i carristi, gli artiglieri, gli aviatori americani a battersi in prima linea contro gli irregolari e a pattugliare le strade, sperando di non saltare in aria sulle mine radiocomandate. Le forze che non ci sono più, ma che ci sono ancora, con o senza l´uniforme, dovranno rispondere al Dipartimento di Stato, dunque a un ministero senza stellette, che dal prossimo anno avrà la responsabilità di utilizzare le mille e duecento missioni previste per loro, tra posti di blocco stradali, addestramento, partecipazione a rastrellamenti, indagini e rappresaglie con forze speciali, ma sempre nel ruolo del "consigliere". L´Iraq diventa quindi paradossalmente un Vietnam alla rovescia, un´operazione politico-ideologico-militare nella quale l´America passa dal compito del combattente diretto a quello del consigliere, all´opposto di quanto avvenne nel Sud Est asiatico, dove i primi mille istruttori e accompagnatori americani del 1963 metastatizzarono nelle centinaia di migliaia di soldati spediti da Johnson.
Neppure gli strateghi che hanno guidato, o stanno ancora guidando, l´armata Usa sul campo, come Ray Odierno, credono che questo ritiro sia il segnale che la guerra è finita o che "noi abbiamo vinto". Il fatto stesso che gli ultimi fan dell´operazione "Iraqi Freedom" negli Stati Uniti e nell´informazione satellite fuori dall´America, ci abbiano dovuto ripetutamente spiegare che «abbiamo vinto» è la prova che il successo dell´operazione non è mai stata affatto evidente. Una vittoria, se davvero c´è, di solito si vede.
La decisione di riportare a casa ordinatamente le ultime brigate di prima linea evitando le sequenze apocalittiche degli ultimi giorni di Saigon, e puntando sulla "irachizzazione" della guerra sperando di avere migliore esito di quanto ne ebbe la "vietnamizzazione", è una decisione dovuta e commendevole, ma politica, non strategica né tattica. È dettata dalla necessità, per il presidente Obama, di rispettare almeno una promessa mantenuta davanti a un elettorato che si prepara a castigare ferocemente i suoi Democratici, dunque implicitamente anche lui, in novembre nelle elezioni per Camera e Senato. Nel crogiolo dei suoi quasi due anni di regno, ci si era ormai dimenticati che proprio la guerra in Iraq era stata il trampolino politico dal quale lanciarsi verso la Casa Bianca. Prima della frana finanziaria del settembre 2008, che segnò il definitivo collasso della presidenza Bush e spinse Obama alla vittoria, era l´Iraq, con il siparietto dell´Afghanistan divenuto oggi palcoscenico centrale, il motivo conduttore della campagna elettorale.
Sfortunatamente per lui, la rappresentazione del ritiro promesso e sospirato va in scena davanti a un pubblico che guarda altri show e si sintonizza ossessivamente sull´economia e sulle tasse che inesorabilmente il governo dovrà aumentare nei prossimi mesi di fronte alla voragine di un debito pubblico ormai oltre il 10% del Prodotto interno lordo e ai costi di stimoli governativi che funzionano da tamponi, non da terapie. La data sulla quale la gente tiene gli occhi puntati non è quella del richiamo dei ragazzi e delle ragazze dall´Iraq – il 31 agosto – ma il primo gennaio del 2011. Con l´inizio del nuovo anno fiscale, i tagli alle tasse sul reddito varati da Bush nel "Tax Relief Act" del 2003 – anno di guerra – scadranno. Senza rinnovo, o con rinnovi più severi, le aliquote torneranno ai livelli ben più elevati, soprattutto per i redditi più alti, del 2000.
È dunque la guerra del "1040", il modello unico per la dichiarazione dei redditi negli Usa, non quella del 2010 il fronte che agita la nazione e che porterà a Washington, il 12 settembre prossimo, le truppe dei dimostranti anti-fisco mobilitati dal Partito del Tè, come si fa chiamare l´ala spontaneista e ormai dominante dei repubblicani. Sulla spianata tra il mausoleo di Lincoln e l´obelisco di Washington, i ribelli contro le tasse riempiranno lo spazio che forse loro stessi da giovani avevano occupato contro la guerra. Mentre gli ultimi soldati in ritirata risalgono le valli del Tigri e dell´Eufrate invisibili nella polvere malinconica di un´altra guerra dimenticata.