Ned Parker, la Repubblica 20/08/2010, 20 agosto 2010
IN VIAGGIO CON GLI ULTIMI SOLDATI «LASCIAMO QUESTO PAESE CHE HA BRUCIATO LE NOSTRE VITE»
Bagdad - Il carro armato, uno Stryker, incombe nell’oscurità come un dinosauro: è pronto, pieno di acqua e Gatorade nei frigoriferi. Gli iPod sono collegati al sistema di comunicazione. Tutto quello che i soldati devono fare è aspettare il via per iniziare un viaggio che i comandanti hanno battezzato «l’ultima pattuglia».
È appena passata la mezzanotte di lunedì a Camp Taji, Bagdad. Il sergente maggiore Shawn Sedillo chiacchiera con il suo mitragliere, il soldato Ben Longoria, e il suo manovratore, il soldato Joseph LeFevre, che fumano fuori dal parcheggio dei blindati. Il vice di Sedillo, il sergente Dennis Hill, sonnecchia dentro il minuscolo abitacolo. Un amico porta burritos Taco Bell e petti di pollo panati Burger King.
Questi uomini fanno parte della 4ª brigata, 2ª divisione di fanteria dell’esercito: formalmente sono l’ultimo reparto da combattimento americano a lasciare l’Iraq, dopo 7 anni di guerra. In 3 giorni, 360 veicoli militari e 1.800 soldati attraverseranno Bagdad e il Sud sciita fino al Kuwait.
Per questi soldati, la strada verso casa è segnata dal sangue e dal rimpianto per gli anni spesi lontano. A volte gli iracheni li accoglievano bene, altre volte gli auguravano di morire. Le due parti continuano a non capirsi, anche oggi: frustrazione e rabbia si insinuano nelle conversazioni dei soldati, più o meno come quando arrivarono per la prima volta. All’una di notte, una dozzina di militari si radunano per un briefing sul percorso. «È un giro come gli altri - dice un tenente - fate tutto con calma. È l’ultima missione. Non c’è motivo perché qualcuno si faccia male».
Sedillo, 35 anni, fa un ghigno. È l’apripista, quello che starà in testa alla fila di 16 Stryker, con un occhio a possibili imboscate: «Andiamo». È ancora buio, ma è eccitato all’idea di passare in mezzo alla discarica e all’insediamento abusivo detto «District 9», dal film horror con gli alieni che vivono in un campo profughi e si nutrono di cibo per gatti. Sorride ancora: «Sarà fantastico».
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Qualche ora prima: Sedillo sta seduto sulla parte anteriore del suo mezzo. Dubita che gli mancherà questo posto. Dal 2003 ha passato più tempo in Iraq che nella sua casa in Colorado. Ha cercato di lasciare l’esercito, ma aveva sempre bisogno di denaro per la famiglia. Alla sua seconda notte in Iraq, nel maggio del 2003, ha avuto il primo contatto con la violenza che per i 7 anni successivi avrebbe scandito la sua esistenza. Si era radunato un gruppo di manifestanti fuori dal municipio, a Falluja. Sedillo sul tetto guardava quella folla che urlava e tirava pietre. «Follia totale», pensò. Ricorda che arrivò un convoglio dell’esercito e poi ci fu il boato di una mitragliatrice. Infine la testa di un uomo che esplodeva. Quell’estate, il comandante della compagnia, il capitano Joshua Byers, e un sergente furono uccisi. «I primi di tanti morti», dice. Il giorno del Ringraziamento, passò la notte a cercare armi sepolte in un campo. A dicembre catturarono Saddam Hussein e lui pensò: «Ora andiamo a casa. Ma siamo rimasti».
Alla scadenza del suo primo periodo di servizio al fronte, nel marzo 2004, il suo reggimento aveva perso 93 soldati. La sua unità fu rispedita in Iraq a inizio 2005. Promise che avrebbe riportato a casa tutti i suoi uomini: «Ma non tutti sono tornati». Li mandarono a Tall Afar, nel Nord, un punto di snodo per i gruppi armati che arrivavano dalla Siria. La sua unità era destinata a proteggere un ospedale. Una volta, mentre erano in pausa, uno dei suoi uomini scese giù nell’atrio per andare al bagno. Era il sergente Jacob Simpson. Si sentì il boato di un’esplosione. Un medico gridò: «Simpson è morto!». Sedillo continua a ripensare alla sua morte. «Se lo avessi tenuto in stanza un po’ non sarebbe morto».
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Sedillo e i suoi uomini strisciano nello stomaco dello Stryker quando è da poco passata l’una e mezza del mattino. LeFevre, 24 anni, è al volante. Longoria accanto alla mitragliatrice, al centro. Sedillo e Hill si sistemano sulle torrette nel retro. Sedillo scrive l’elenco dei passeggeri del convoglio sul vetro antiproiettile della torretta. Legge alla radio l’elenco, 71 passeggeri e 5 interpreti. Si parte. Lo Stryker si muove a passo di lumaca, mentre gli altri 15 veicoli lo seguono. Longoria, 24 anni, facendo la voce da annunciatore, dice: «In un mondo dove solo i soldati fanno lunghi viaggi in macchina fino al Kuwait, un carro armato fugge dagli zombi». Gli altri tre ridono nella radio. Hill, 32 anni, rimane in silenzio. «Andiamo». Per calmare i nervi, Longoria mette una canzone satirica. Lo Stryker avanza scoppiettando, accanto ad alberi e caserme; tutti i ragazzi ridono e cantano. Freedom is the only way, yeah. Terrorists, your game is through, cause now you have to answer to America. (La libertà è l’unica strada / Terroristi, il vostro gioco è finito, perché dovrete rispondere all’America). Sedillo dice: «Oggi non riuscirete a farmi passare il buonumore». Longoria interviene: «Andremo più veloci dell’amore». «Io vado in Afghanistan», fa Hill in uno dei suoi rari commenti, ipotizzando la sua prossima destinazione. LeFevre sbotta: «Sì. E dopo in Iran».
Longoria sa che gli anni che ha passato in Iraq lo hanno cambiato. «Se sopravvivo ai prossimi 2 anni, voglio fare qualcos’altro», dice. Lui e LeFevre hanno scritto dei pezzi heavy metal e hanno formato una band, A Death Solar. Le loro canzoni hanno nomi come The Allure of Death (Il fascino della morte).
Ad aprile, la moglie gli ha detto tramite Yahoo Messenger che vuole il divorzio. Ha detto che lui era cambiato troppo. Lui sapeva che le cose non andavano bene, ma la notizia lo ha lasciato di sasso. Hanno due bambini e stanno insieme dai tempi del liceo. «Prima dell’esercito ero gentile e felice», dice.
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Il convoglio prende velocità. Gli Stryker sono a distanzia di 10-20 metri e procedono con grande frastuono. Superano le pianure che circondano a nord di Bagdad, passano di fronte ai negozi di ferramenta, alle macellerie e alle fabbriche dei tempi di Saddam, abbandonate. Sfiorano la baraccopoli di Shoula, covo di milizie sciite che regolarmente piazzano ordigni. Questo è il posto che Sedillo chiama District 9. Non esplode nessuna bomba e l’equipaggio è visibilmente sollevato.
Per festeggiare l’uscita dal District 9, Longoria mette a tutto volume Bohemian Rhapsody dei Queen’s. Cantano tutti tranne Hill. Mama, just killed a man/Put a gun against his head/Pulled my trigger, now he’s dead/Mama, life had just begun/ But now I’ve gone and thrown it all away. (Mamma ho ucciso un uomo. Ho premuto il grilletto ed è morto. La vita era appena iniziata ma ho buttato via tutto). Fanno canto e controcanto, con falsetti e voci profonde da baritono, per tutta la canzone. Ma non smettono mai di controllare la strada. Uno si guarda intorno e dice scherzando: «Certo che Saddam quelle armi di distruzione di massa le ha nascoste bene». Tutti ridono.
Il convoglio entra nelle zone agricole a sud di Bagdad. È già l’alba. Gli uomini sono fuori a pascolare il bestiame e in un prato ci sono degli asini. Dei bambini cominciano a saltare quando passano gli Stryker. Alcune macchine sfrecciano accanto al blindato e Longoria urla: «Non passerete». Una sterza.
Sopra di noi volano dei Black Apache. Gli Stryker guizzano accanto a delle pozze dove degli uomini camminano immersi fino al ginocchio, raccogliendo il sale. I pascoli verdi e i piccoli specchi d’acqua lasciano il posto prima a spianate marroni e poi al giallo intenso del deserto. Si vedono dei pali lungo la strada. Il convoglio arriva a Camp Adder, nel deserto vicino a Nassiriya, per dormire. Fanno 48 gradi e le guardie perlustrano il fondo degli Stryker per vedere che non ci siano bombe. Hanno i capelli appiccicati dal sudore, gli pulsa la testa dal caldo. Sopra il parcheggio dei veicoli splende una bella mezzaluna e i soldati esausti si preparano per l’ultima tappa. LeFevre sussurra al suo Stryker: «Forza Lucy, ancora una tappa prima della terra promessa».
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Si mettono in marcia alle 3.20 del mattino. Non c’è nient’altro che deserto, ondate di canaloni gialli dove i militanti sciiti potrebbero essere in agguato. Sedillo scruta intorno e sfoglia cumuli di mappe. Il gruppo sente che il confine col Kuwait si avvicina. Arrivano a un semplice cancello con barriere di cemento e palizzate. Due ufficiali li salutano e un Suv li scorta dentro l’area di confine. Nessuno ulula o schiamazza. Tutti sono concentrati a ripulire i veicoli.
Il confine è passato. I soldati sono stanchi ma non resistono alla tentazione di mettere un’ultima volta Bohemian Rhapsody. Longoria si butta all’indietro sulla torretta, con i piedi in su. Sedillo tamburella con le dita. Si sforzano di prendere le note alte. Just gotta get out, just gotta get right outta here/Nothing really matters. Anyone can see/Nothing really matters. Nothing really matters to me. (Fuori di qui, fuori di qui. Nulla ha importanza, lo vedono tutti. Non mi importa di nulla).
(Copyright Los Angeles Times- La Repubblica - Traduzione di Fabio Galimberti)