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 2010  agosto 20 Venerdì calendario

OBAMA, MEZZO ADDIO ALL’IRAQ VIA I SOLDATI ARRIVANO I CIVILI

New york - Dopo 7 anni e 5 mesi di guerra, 4.415 soldati americani morti, 751 miliardi spesi, l´Operazione Iraqi Freedom si è ufficialmente conclusa. L´America ha ritirato dall´Iraq le ultime truppe da combattimento. La Quarta Brigata della Seconda Divisione di fanteria è rientrata in patria onorando con 12 giorni di anticipo una promessa precisa di Barack Obama: la fine dell´impegno di guerra entro agosto. L´America ha seguito con emozione il momento solenne, le immagini dell´addio degli ultimi combattenti hanno monopolizzato i notiziari televisivi (con 48 ore di ritardo: la partenza è avvenuta martedì ma i mass media hanno rispettato l´embargo chiesto dal Pentagono per ridurre i rischi di attentati).
Tuttavia nessuno ha pronunciato il fatidico «missione compiuta», non c´è traccia di trionfalismi. La prima ragione è nei numeri dello stesso ritiro, largamente incompiuto. Obama lascia in Iraq 50mila soldati, 56mila se si includono gli uomini dei reparti speciali e dei commandos della Cia. In teoria quelli che rimangono ora hanno compiti di «consulenza e addestramento», ma è evidente che una presenza di quelle dimensioni non si limita a un corpo di istruttori. Resta l´impegno altrettanto solenne che Obama ha preso, sia con i suoi elettori sia verso il governo di Bagdad, di ritirare tutte le truppe americane entro il 31 dicembre 2011. Anche quel «tutte» va inteso in senso elastico: è escluso per esempio che scompaiano dall´area anche i 6mila dei reparti speciali. L´ex ambasciatore in Iraq Ryan Crocker prevede inoltre che dai cinque ai diecimila ufficiali Usa resteranno di stanza in modo permanente come consulenti.
Certo Obama ha mantenuto nella sostanza una promessa: il dispiegamento militare è sceso ai minimi assoluti dall´inizio dell´invasione nel marzo 2003. Rispetto a una punta massima di 170mila soldati, il ridimensionamento è drastico. Ma Washington non può permettersi di mollare al suo destino un Paese che è costato così caro in perdite umane e in risorse economiche. Perciò dietro il ritorno a casa dei soldati si cela un´altra realtà, più complicata e inquietante. Il vuoto lasciato dagli uomini in divisa viene riempito in due modi di segno diverso. Da una parte gli Stati Uniti potenziano la loro presenza civile, con personale diplomatico che deve accompagnare il «nation-building», la costruzione di istituzioni efficienti, di uno Stato di diritto, per lo sviluppo economico e per la stabilità geopolitica in un´area cruciale del Medio Oriente.
D´altro lato, sul fronte più specifico della sicurezza, Obama è costretto a fare un ricorso massiccio alle aziende private, i famigerati contractors, vere e proprie multinazionali mercenarie. È un altro colpo di acceleratore a quella privatizzazione della guerra che è una tendenza in atto da anni. E che sotto l´Amministrazione Bush fu all´origine di gravissimi scandali: dalle stragi perpetrate dai mercenari al di fuori di ogni controllo, alle ruberie di fondi pubblici. Quello che il New York Times descrive come «uno straordinario sforzo civile per riempire il vuoto», porta questi segni contrastanti. Il Dipartimento di Stato aprirà due nuove succursali dell´ambasciata di Bagdad, a Kirkuk e Mosul, con un investimento da un miliardo di dollari, per presidiare due aree strategiche con 2.400 esperti e consulenti dell´amministrazione pubblica. Ma al tempo stesso dovrà mantenere un piccolo esercito privato di 7mila guerrieri professionali, con armi ad alta tecnologia e droni per la sorveglianza aerea, per garantire la protezione di queste cittadelle fortificate.
A dettare cautela non è solo il ricordo infausto di George Bush e del suo «mission accomplished» gridato dal ponte di una portaerei il primo maggio 2003. Nel fare il bilancio di questi sette anni l´America è sospesa nel dubbio. In Iraq il progresso socio-economico e civile è incompiuto. Lo dimostrano le stesse cifre ufficiali rilevate dalla Brookings Institution: solo il 20 per cento della popolazione è allacciata alla rete fognaria, solo il 45 per cento ha accesso ad acqua potabile, solo il 50 per cento riceve corrente elettrica per almeno 12 ore al giorno. Il governo è debole, la lotta tra fazioni potrebbe riacutizzarsi aprendo nuovi spazi al ritorno di Al Qaeda o all´influenza perniciosa dell´Iran. Soprattutto, l´attenzione degli americani si è spostata ormai sull´altro fronte, l´Afghanistan. Quella che ormai è diventata «la guerra di Obama».
Federico Rampini

INTERVISTA A JUAN COLE (storico del MO Università Michigan)
"L´America se ne va, e adesso?", questa è la domanda più ripetuta. «Adesso c´è un Iraq debole, ferito, con in più una polveriera, quella del Kurdistan, che aspetta di saltare in aria». Juan Cole, storico del Medio Oriente all´Università del Michigan ed esperto di affari iracheni, non minimizza. «Il Paese che le truppe americane si lasciano alle spalle ha l´aspetto di una nazione azzoppata, priva delle sue menti migliori fuggite all´estero, fragile nella sicurezza, incapace di fornire servizi minimi come l´acqua potabile e l´elettricità, spaccata lungo faglie etniche e settarie. L´immagine forse più calzante è quella del Libano riemerso dalla guerra civile alla fine degli Anni ‘90».
Professore Cole, lei ritiene prematuro questo ritiro?
«Niente affatto. La presenza delle unità di combattimento non modificherebbe la realtà. Non inciderebbe sulla sicurezza poiché non ha potuto prevenire i grandi attentati anche in passato. Né tamponerebbe la fragilità strutturale dell´Iraq. Il ritiro è un passo positivo. Dimostra la fedeltà del presidente Obama alla parola data».
È questo, secondo lei, il significato più importante?
«Proprio così. È il simbolo della svolta politica di Washington, il ripudio delle "guerre preventive" di George W. Bush. Questo dovrebbe rassicurare gli iracheni, e gli arabi e i musulmani, sulle intenzioni degli Stati Uniti. Se vuole, è un atto di contrizione da parte di Obama. Può scaturirne un risanamento con il mondo arabo. Quanto alle ferite dell´Iraq, per guarirle servirà ben altro».
Che cosa, soprattutto?
«Intanto bisogna disinnescare la polveriera del Kurdistan. I curdi vogliono aggiungere terre alla loro regione. Gli arabi sono contrari. E tutti sono armati. Già i peshmerga curdi si sono scontrati con l´esercito iracheno. Gli americani facevano da cuscinetto fra i due. Hanno proposto una forza di interposizione Onu, sul modello libanese. Ma gli iracheni l´hanno respinta. E poi c´è l´altra santabarbara».
Quale?
«È il vuoto politico dopo le elezioni del 7 marzo. L´Iraq non sa darsi un governo. Stati Uniti e Iran si affrontano come su un campo di calcio. Washington vuole una coalizione fra il premier al Maliki e la formazione laica di Allawi, ex uomo della Cia, cui assegnare la sicurezza. Teheran, invece, preme per un´alleanza sciita. Ecco il rischio: se l´attesa si prolunga, può verificarsi un colpo di Stato. Esploderebbe la guerra civile: uno scenario che nessuno vorrebbe vedere».