Imma Vitelli, Vanity Fair n.33 25/8/2010, 25 agosto 2010
IO SONO IL PADRINO
[Intervista a Ahmed Wali Karzai]
Per arrivare dal Padrino, occorre oltrepassare delle barricate di cemento, poi un altro, simile, sbarramento, infine un posto di blocco e una perquisizione, e al termine di questo percorso a ostacoli sono dentro una palazzina bianca a un piano con diversi salotti, e dozzine di questuanti adagiati sui cuscini.
Aspettano tutti un’udienza con Agha Mama.
Il suo vero nome è Ahmed Wali Karzai, Karzai come il presidente, di cui è fratello, e confidente. È l’uomo più potente di Kandahar, la capitale spirituale dei talebani, la provincia irriducibile del Mezzogiorno afghano. Di lui si dicono cose tremende: che sia coinvolto nel traffico di droga; che abbia dirottato miliardi di aiuti a conti a lui intestati in alcune banche di Dubai; che faccia fuori i suoi rivali; e altre nefandezze. I diplomatici dei Paesi della Nato, a Kabul, fanno poco per celare il loro sdegno: vige il consenso che l’uomo sia un gangster.
«Da quando mio fratello è presidente mi hanno accusato di tutto, tranne, credo, di essere gay o magnaccia», mi dice serafico, quando tocca a me sedermi al suo fianco.
A 48 anni, è un uomo pingue, coi baffi, dai modi ironici, che celano appena una ferrea risolutezza. Quali che siano i suoi affari, cinque giorni a settimana, cinque ore al giorno, Agha Mama si occupa di quelli della sua gente. Paziente, ascolta la litania di garbugli che signori in turbante gli presentano e che egli, con un cenno della mano, in qualche modo risolve. Lo vedo con una telefonata far uscire gente di prigione, complottare un allevamento di pesci («non ce n’è in Afghanistan, e i miei figli non lo mangiano per mesi»), venire a capo di una disputa tra le tribù alleate Barakzai e Achakzai.
E quando gli faccio notare che sembra un giudice, feudale, non perde un colpo, alza il dito e dice: «No, no, no, io sono il Padrino, Corleone, Peter Clemenza».
È soltanto l’inizio di un inedito show che lascerà il mio factotum afghano, che pure ha assistito a molte altre uscite pubbliche dell’uomo, a bocca aperta; mai, pare, AWK si era prima così lasciato andare. Per parte mia credo sia stato il sollievo di intrattenersi, per una volta, con una reporter italiana, invece dei consueti accigliati colleghi americani. O forse è stata la repentina gioia di esser vivo, che prende talvolta i sopravvissuti. Questo, dopotutto, è un uomo prigioniero di se stesso e del suo ruolo.
I talebani, o chi per loro, gli hanno mandato un paio di kamikaze («mi vogliono morto fino a questo punto»); in uno di questi attentati hanno perso la vita nove persone, riducendo la via a un tappeto di brandelli umani («con i resti i gatti hanno fatto festa»).
«Molte persone a me vicine sono state ammazzate. A molti miei parenti hanno tagliato la testa. Sei delle mie guardie del corpo sono state fatte fuori». Indica un piccolo che traffica nelle scale. È figlio di una di loro. «Mi occuperò di lui a vita».
Per impedire ai suoi nemici di porre prematuramente fine anche al suo, di destino, esce di rado: «Questa casa è una prigione». Della sua dorata prigione nel centro di Kandahar parleremo a lungo dopo; per adesso basti sapere che da queste mura, e barricate, esce solo un paio di volte a settimana, per andare al Consiglio provinciale, che presiede. I quattro figli, per motivi di sicurezza, non vanno a scuola. Ogni tre o quattro mesi li porta in vacanza a Dubai, e per andare all’aeroporto bloccano la città per ore e si muove in un convoglio di 15 auto corazzate.
Tale è la situazione, nella città dei Karzai e del mullah Omar, ed è da lì che cominciamo.
Le cose vanno male a Kandahar. La grande battaglia per strapparla ai ribelli, che lei sappia, avverrà mai?
«Non so quando avverrà l’operazione militare, ma essa ha il mio completo sostegno. I talebani vogliono un indirizzo, noi glielo dobbiamo negare. Paghiamo il prezzo dell’indifferenza dei primi anni. Non ci sono state operazioni nel 2003, nel 2004, nel 2005, nel 2006. Gli alleati hanno lasciato che le cose degenerassero. Adesso è ora di colpire e di ricostruire, è un pacchetto. È tutto così in ritardo. È dal 2002 che chiedo più soldi, più poliziotti, ce li hanno dati nel 2007».
Non crede sia tempo che tacciano le armi e parli la politica?
«Parli con chi?».
Suo fratello, il presidente, sta parlando con il Pakistan.
«È evidente che senza il Pakistan non c’è soluzione. Ma io personalmente credo che i negoziati debbano avvenire da un punto di forza, non di debolezza. Li conosco, i talebani, gli dai un mignolo e si prendono la mano. Nel ’94, agli inizi, dissero che volevano solo ripulire le strade di Kandahar dai briganti che tassavano i passanti, e sappiamo come è andata a finire. Si sono presi tutto il Paese. Nei distretti che controllano, terrorizzano la gente. Nella nostra società le donne sono sacre, loro le nascondono sotto i burqa, bruciano le scuole, distruggono le strade. È evidente che non combattono per l’Afghanistan».
L’annuncio di Barack Obama di ritirarsi a partire dal 2011?
«È stato un ottimo colpo per i talebani, ottimo materiale di propaganda, ha dato loro l’opportunità di reclutare più gente. A noi del governo ha tagliato le gambe».
Il tempo sta finendo. Alcuni alleati, come gli olandesi, e anche, alla fine dell’anno prossimo, i canadesi, hanno già deciso di lasciare il Paese. E se se ne va la Nato?
«Le cose si metterebbero male, molto male. Sarebbe un disastro. Non è finita. Al Qaeda è ancora lì».
Non ci sono soldi, per la guerra, in America e in Europa.
«Se se ne vanno, poi saranno costretti a tornare. Gli americani non si possono nascondere negli Stati Uniti. L’intera regione andrebbe ai talebani. Per il mondo, e per noi, sarebbe un disastro».
Non si parla bene del governo, e di lei, in giro.
«Nei miei primi 40 anni di vita non sono mai stato accusato di niente. Ho vissuto per dieci anni negli Stati Uniti, e in dieci anni mi hanno fatto due multe per eccesso di velocità. Avevo, per inciso, il miglior ristorante afghano di Chicago. Negli anni Novanta, lavoravo per una Ong che costruiva canali a Helmand. Lavoravo nei campi, e spesso dormivo in macchina. Questo sono io. Poi mio fratello è diventato presidente e mi hanno accusato di qualsiasi cosa».
È risaputo che questo palazzo, in cui lei abita, sia di proprietà di un noto trafficante di oppio.
«L’80 per cento dell’economia di Kandahar era basata sull’oppio. I proprietari sono quelli. Loro sono gli unici ad avere soldi. Anche i consolati dell’India e dell’Iran sono in palazzi di proprietà dello stesso signore: sono coinvolti nel traffico di droga anche loro? Pago regolarmente l’affitto: ciò fa di me un trafficante? Mi sono trasferito in questa casa nel 2002. Non avevo idea di quali fossero le attività del proprietario. Eppure la stampa e i diplomatici a Kabul hanno stabilito che sono un trafficante».
Droga o non droga lei ha molti nemici.
«I leader politici e tribali mi percepiscono come una minaccia. È una gara, allora provano a bucarmi le ruote per farmi restare ai box. Dicono tutti cose terribili senza averne le prove. È la politica. Il mio potere è la gente. Appartengo a una famiglia e a una tribù (i Popalzay, ndr) che hanno fatto la storia dell’Afghanistan. Il mio bisnonno ha combattutto contro gli inglesi, mio padre è stato assassinato dai talebani. Sono un leader tribale. Il popolo qui è abituato al re. La democrazia ha otto anni. Non è colpa mia se la gente viene a vedermi per risolvere i problemi. È la nostra tradizione. È una cosa buona. La comunità internazionale ci sta mettendo fretta, ma ci vuole tempo».
Il suo più grande timore?
«Che la gente si sposti dalla parte dei talebani. E che la Nato se ne vada. Ma crede davvero che se ne vadano? Stanno costruendo nuove basi, a Helmand. Abbiamo bisogno che almeno un certo numero di soldati resti a darci una mano. Così l’abbiamo vinta la guerra, nel 2001. Lei forse non lo sa, ma nel 2001 ero con 3.500 guerriglieri nella casa del mullah Omar, qui vicino».
Ha combattuto?
Scoppia a ridere e la butta sul sarcastico:
«Le sembro un guerriero? Sono un trafficante di droga! Lei non lo sa ma dentro questi muri c’è l’oppio. Quando uscirà da qui sarà completamente fatta».
Rido anch’io, in effetti stupefatta. E mentre siamo lì che ridiamo, il fratello del presidente m’invita a pranzo.
Doveva essere un incontro di un’ora, ne sono passate almeno tre. Ci trasferiamo in un’altra stanza; adagiati su tappeti di Herat ci aspettano montone e riso, pollo e deliziose carote speziate.
«È bella l’Italia, vero?», mi chiede. «Non ci sono mai stato. Faccio il tifo per il Milan, però. È una grande squadra. La sera quando i miei figli smettono di saltarmi addosso, e smetto di fare i traffici di droga, mi guardo le partite. È il mio unico momento di svago».
Provo a riportare il discorso sulle sue tribolazioni; gli chiedo come si spiega le cannonate della stampa americana. All’inizio dell’anno il New York Times ha scritto che è sul libro paga della Cia.
«Se ne dicono tante», dice, con ampie giravolte della mano.
«Francamente sarei sorpresa», insisto, «se lei non lavorasse per la Cia. È il fratello del presidente, parla inglese, è un punto di riferimento naturale».
Fa sì col capo.
«Io aiuto loro, loro aiutano me. Stiamo dalla stessa parte», e anche questa, di affermazione, è una novità, essendo l’uomo aduso a negare qualsiasi legame con gli agenti di Langley.
Nel frattempo, ha spazzato il suo pollo dal piatto all’afghana, con le mani; e in questo clima di franchezza conviviale, reintroduco il problema della droga: dopotutto, da Kandahar e dalla confinante provincia di Helmand, esce il 90 per cento della produzione mondiale di oppio. Come si spiega?
Un domestico compare con una brocca e un catino di rame; AWK si lava le mani. «È un discorso lungo», dice. La droga, spiega, è la coltura tradizionale dei contadini del Sud; la gente la pianta perché davvero non ha altra scelta; i talebani ne regolavano il prezzo con un sapiente mix di liberismo e divieti. Soprattutto, conclude, con l’oppio si potrebbero fare cose meravigliose: «È che ho già questa reputazione, altrimenti produrrei il tè e il profumo all’oppio. Non capisco come mai nessuno ci abbia pensato. Un profumo all’oppio, se lo immagina? Sarebbe un successo planetario. Lo annusi (mima una lunga sniffata) e ti inebri».
Si asciuga le mani con una tovaglia rosa; nelle altre stanze il suo popolo lo aspetta. M’invita a restare in contatto, mi chiede se ho altre domande.
Gli dico di no.
Grazie per lo show, mister Ahmed Wali Karzai.