Enzo De Mauro, Il Messaggero 19/8/2010, 19 agosto 2010
BRANCATI
Vitaliano Brancati, per i cittadini di Catania, è stato a lungo uno scrittore indigeribile, imbarazzante. Un imperdonabile, da tenere a distanza e in gran dispetto. Ancora nei primi anni Settanta, un anziano medico condotto di un paese etneo che in gioventù gli fu amico e sodale in quanto a passione dannunziana – entrambi evidentemente avrebbero a quel tempo rinunciato a tutto, cultura e intelligenza, in cambio di bicipiti ben torniti – raccontava aneddoti gustosi e risentiti e poi concludeva con parole d’involontario riconoscimento: “Chiddu aveva mille occhi, vedeva tutto e ci ha strappato la maschera e la faccia”. Quel bravo medico all’antica, nell’opera del Brancati maturo – il quale aveva imparato, dopo essere guarito dall’infatuazione fascista, a dormire con un occhio solo, così scriveva, a guardia di se stesso – tutte le proprie sconfitte storiche e private, vale a dire il 25 luglio, l’8 settembre, il 25 aprile, la democrazia riconquistata e poi la decisione o l’inerzia di continuare a vivere accudito dalle due sorelle nubili, il fin troppo conclamato dongiovannismo, l’ininterrotto e cavilloso parlare fantasticando con gli amici intorno a donne immaginarie o appena intraviste, nel corso di lunghe e mortificanti passeggiate per via Etnea, Corso Umberto o lungo i viali alberati di Villa Bellini, a consumare tempo, suole e lastroni di pietra lavica. I catanesi, d’altra parte, non amarono neppure Giovanni Verga e Federico De Roberto. A loro preferirono il rombante e tronfio Mario Rapisardi che volentieri s’affacciava dal panciuto balcone di casa sua come un principe della poesia tappezzata di “parole generiche”, annotava Brancati, tanto care agli spiriti “né veramente semplici né veramente complessi”. Al punto che, quando il vate cacciò di casa la moglie che lo aveva tradito con il giovane Verga, quei cittadini organizzarono una manifestazione di solidarietà – e fu forse la prima e l’ultima volta – con l’illustre cornuto.
Chiddu, ovvero Brancati, a quelle mitologie aveva inferto un colpo mortale. I suoi romanzi – Gli anni perduti (1938), Don Giovanni in Sicilia (1941), Il bell’Antonio (1949) e il postumo Paolo il caldo del 1954, l’anno della morte – sono gesti di smascheramento e rappresentano una “scommessa illuministica”, per definirla con le parole di Giulio Ferroni. L’alibi dell’innocenza in quelle pagine moriva e, con esso, il mito della luce e della solarità. Nato a Pachino nel 1907, lo scrittore si riconobbe catanese d’elezione e certo di amicizie. Nàtaca – così chiama la sua città negli Anni perduti – sembra uno slittamento o un inciampo della lingua che vorrebbe piuttosto articolarsi in nàca ossia culla. Annacari è il movimento ondulatorio che la madre esercita per addormentare il bambino. Dentro questo spazio anestetizzato, in questo romanzo, Leonardo Barini e i suoi amici hanno la sensazione di “essersi svegliati vecchi, dopo una settimana o due di giovinezza”. Pensano appunto: “Che sciocchezza, questa di avere già quarant’anni”. Il tempo della felicità – che essi sostengono già tramontato – in verità non è mai cominciato. La loro nostalgia è il frutto di quel sonno e dell’oblio, e così la struggente memoria della “bella luce, che illuminava tutte le cose” è solo sognata. Quelle figure affilate, stante la loro immobilità, si domandano con invidia dove siano diretti i cani quando li guardano passare con la “corsa diritta, con la loro aria di chi ha uno scopo e una meta”. La “smania” di un attivismo irrelato rappresenta per questi picciriddi invecchiati il surrogato della vita, la coazione ad ammazzare il tempo.
Nei romanzi di Brancati nessuno riesce a partire senza procurarsi una dose di ulteriore infelicità e di nuove, terribili fobie. I protagonisti continuano a dormire nello stesso letto di quand’erano ragazzi. Sdraiati al buio, la loro energia si concentra nel voler “trattenere il sonno coi denti”. Essi fantasticano senza tregua, e così per Giovanni Percolla, nel Don Giovanni in Sicilia, “i discorsi sulle donne sono infine preferibili alle donne stesse”, tutte d’altronde imparagonabili, in quanto a dedizione, alle sue tre sorelle. È l’idea stessa di possedere una donna che lo inorridisce, e lo annichilisce di terrore il pensiero di sentire il ginocchio freddo di un’estranea violare il tepore del suo letto-catafalco. Non resta allora che guardare, e difatti nei romanzi di Brancati si dispiega una colossale fenomenologia dello sguardo. “Che fa, talìa?”: ecco la domanda ossessiva che attraversa le strade di Catania come un fremito. Più si possiede una donna e meno essa ha peso. Così, quando Giovanni passeggia con Ninetta e incontra i suoi compagni di fantasticheria, viene punto da invidia. Vorrebbe starsene con loro a trapassare la fidanzata “con mille sguardi, trovandosi egli seduto a mille tavoli di caffè a roteare duemila occhi cupidi”, da goderne “un pasto più abbondante per i sensi”. C’è qualcosa che ha a che fare con la follia. Negli Anni perduti il riso di Enzo De Mei e la “luce giallina” e calma della sue pupille immobili a fissare il nulla rimandano assai da vicino al protagonista di Paolo il caldo, la grande opera al nero, dove ciò che pareva sensualità si mostra come tabe, tenebra, ghigno della ragione. È il sangue malato degli Uzeda, nei Vicerè del fraterno De Roberto, che viene trasfuso nelle vene della famiglia Castorini. Il sogno del piacere, in Paolo, diventa la definitiva, infernale metastasi.