Andrea Di Consoli, Il Riformista 19/8/2010, 19 agosto 2010
Puntata n.2 - [Vedi sotto indice della rubrica] «BOIA CHI MOLLA!» E CICCIO FRANCO LANCIÒ L’ANTIPOLITICA - La parola d’ordine, a Reggio Calabria, è fare come ad Avola, fare come a Battipaglia; far sentire la propria rabbia, unirsi, gridare contro l’abbandono dello Stato e contro il sottosviluppo meridionale
Puntata n.2 - [Vedi sotto indice della rubrica] «BOIA CHI MOLLA!» E CICCIO FRANCO LANCIÒ L’ANTIPOLITICA - La parola d’ordine, a Reggio Calabria, è fare come ad Avola, fare come a Battipaglia; far sentire la propria rabbia, unirsi, gridare contro l’abbandono dello Stato e contro il sottosviluppo meridionale. Il 15 luglio la città è ancora inaccessibile – sono bloccati sia gli accessi del versante ionico che quelli del versante tirrenico. Scioperano studenti, ferrovieri, gli operai della O.Me.Ca e quelli dell’Enel. Sorgono un po’ dappertutto le barricate, magari utilizzando gli autobus dell’A.M.A. Qua e là ci sono incendi, mentre la rivolta, sin dai suoi albori, assume le caratteristiche della guerriglia. Scrisse Gianfranco Franci su La Stampa: «La battaglia infuria senza esclusione di colpi per alcune ore. Ad ogni carica, ad ogni carosello di jeep, i giovani scamiciati si disperdono, fuggono per le strade anguste, si rifugiano nei portoni e tornano, subito dopo, all’attacco». Ci sono feriti, sia tra i rivoltosi che tra le forze dell’ordine. Reggio è in assetto di guerra – l’unica risposta dello Stato allo sciopero generale è stata quella di inviare in città reparti della Celere in assetto di guerra, responsabili del primo morto ammazzato della “rivolta”: si chiama Bruno Labate, ha quarantasei anni, e fa il ferroviere. Labate viene trovato esanime in via Logotea alle ore 23,30 del 15 luglio; d’urgenza viene trasferito in ospedale, ma per lui, purtroppo, non c’è niente da fare. La situazione precipita, nonostante gli appelli alla calma del sindaco Battaglia. Il funerale di Bruno Labate viene celebrato il 18 luglio, e vi partecipano 20mila reggini. La rabbia cresce in maniera incontrollabile: viene assaltata la questura, e i quartieri di Sbarre e Santa Caterina finiscono stabilmente in mano ai rivoltosi. Scrisse Enzo Biagi su Il resto del Carlino, con il solito lirismo forse un po’ populista che lo contraddistingueva: «Ma io penso, stasera, a quel povero ferroviere, caduto sul selciato di una nostra città del Sud, inutilmente, magari agitando uno di quei cartelli mostrati con orgoglio ai fotoreporter: “Reggini, svegliamoci, Reggio ci chiama!”. Prima uno sciopero generale, poi la conquista della stazione e della piazza, per strappare a Catanzaro la sede della Regione. Penso a quel povero morto che mai avrebbe immaginato che il suo ultimo giorno scadeva nelle file di un corteo». I sindacati esprimono complicate riserve sulla rivolta, mentre l’Msi, per bocca del Commissario federale Giacomo Sammarco, fa dei distinguo: «Dal 1948 noi abbiamo contrastato la regionalizzazione dello Stato conoscendo i mali che essa avrebbe determinato. Particolarmente le lotte odiose tra città e città ci apparivano conseguenti alla frantumazione dell’unità nazionale in piccole regioni autonome. Denunziamo, anzi, a voce alta quanto ingiusto sia il comportamento del Governo per aver tradito la nostra provincia. Posto questo, però, deprechiamo le forze di violenza alle quali soltanto lo spirito facinoroso e non certo le tradizioni di civiltà della popolazione reggina si sta abbandonando. Le responsabilità sono anche qui di coloro che hanno voluto il regionalismo». Intanto, inspiegabilmente, la rivolta di Reggio Calabria continua a non essere presa in considerazione dai vertici della Rai; eppure, tra il 19 e il 21 luglio, in città accade di tutto: vengono incendiati i pressi della stazione Lido e la filiale reggina della Fiat; i traghetti per Messina (in partenza da Villa San Giovanni) vengono bloccati per ore; esplode una bomba carta nelle vicinanze della stazione Cannitello; e la rivolta, partita da Reggio Calabria, si estende nell’intera provincia (Melito Porto Salvo, Favazzina e Gambarie d’Aspromonte). Il Comitato di agitazione viene sempre più gestito dai democristiani e dai missini. Ma è una inedita situazione di “tutti contro tutti”: la sinistra nazionale è contro il popolo “disorganizzato” e “manovrato”, la Dc locale è contro le scelte e l’attendismo del Governo democristiano, l’Msi si divide tra chi appoggia la rivolta e chi, ai massimi vertici, non è d’accordo. S’invertono le parti assegnate storicamente alle organizzazioni partitiche e sindacali, e manca la capacità, soprattutto a Roma, di leggere il malessere di Reggio Calabria. Anche la Pravda di Mosca, in una nota della Tass, prende posizione contraria: «I fascisti estendono le loro azioni. La situazione politica italiana, a due settimane dall’apertura della crisi di governo, permane alquanto complessa. A chi serve questo spargimento di sangue provocato in piena crisi di governo? Chi ha sfruttato il malcontento di una parte degli abitanti di Reggio Calabria per i propri scopi politici reconditi?». Dal 22 luglio al 29 luglio del 1970 la rivolta di Reggio subisce una radicale accelerazione che ne trasforma la natura; il 22 luglio, infatti, il Treno del Sole, che collega Palermo con Torino, deraglia all’altezza di Gioia Tauro, causando 6 morti e 54 feriti. Solo in seguito, negli anni Novanta, si scoprirà la mano della manovalanza della ‘ndrangheta dietro a questo “incidente”. Scrisse Alfonso Madeo sul Corriere della Sera: «“Per carità, non diffamiamo la Calabria”, ci ha dichiarato il questore Santillo sul posto stesso della sciagura, fra ululati di sirene e grida di disperazione, mentre la fiamma ossidrica dei vigili del fuoco cercava, ostinata, di agevolare il tentativo di per strappare al groviglio delle lamiere gli ultimi corpi straziati». La città, in attesa degli eventi e sgomenta per il deragliamento del Treno del Sole, vive qualche giorno di relativa calma. Il 28 luglio, a Roma, il sindaco Battaglia incontra il Segretario organizzativo della Dc Oscar Luigi Scalfaro e, in seguito al colloquio con l’esponente democristiano, emana un comunicato nel quale scoraggia la proclamazione di un altro sciopero generale. Ma a Reggio Calabria, nel frattempo – in attesa dell’elezione del Presidente dell’Assemblea regionale prevista per il 30 luglio – il Comitato di agitazione, misteriosamente, si scioglie, e nasce il Comitato di azione, guidato da Ciccio Franco, tribuno populista dell’Msi dall’oratoria infiammata, che conia lo slogan (di dannunziana memoria) della rivolta di Reggio: “Boia chi molla!” (Suo sarà anche lo slogan, utilizzato più tardi per altre vicende, di Mani pulite). Il 30 luglio, dopo la nomina del catanzarese Mario Casalinuovo a Presidente dell’Assemblea, i reggini si radunano a piazza Italia per ascoltare i comizi dei vertici del Comitato di azione (sono più di 6mila). Parlano Ciccio Franco, Fortunato Aloi e l’industriale del caffè Demetrio Mauro. Il malessere popolare reggino, a quindici giorni dall’inizio della “guerriglia”, viene sempre di più compreso e interpretato dalla destra neofascista. Scrisse Franco Pierini su Il Giorno, comprendendo solo in parte l’anomalia della rivolta: «Il momento, da un certo punto di vista, è il più drammatico delle tante giornate angosciose della settimana scorsa. Qui si sta verificando il distacco totale della popolazione dalla classe politica, anche da quella locale. Reggio ha scoperto fra ieri e oggi l’antipolitica». Sarà anche stata la scoperta dell’antipolitica, ma se Reggio decise di chiudere i propri negozi e i propri uffici, isolare i propri quartieri, assaltare i luoghi delle istituzioni e della rappresentanza statale, innalzare barricate, indire comizi, diramare comunicati, stringersi in una dolorosa lotta popolare oltranzistica, il motivo era solo da ricercare nel senso di umiliazione dei suoi cittadini, nella frustrazione economica e sociale, nella consapevolezza di essere stati scippati di un diritto storico – lo status di capoluogo regionale – da uno scellerato accordo romano dei cosiddetti “santi in paradiso” della politica calabrese, ovvero degli onorevoli Misasi, Mancini e Pucci. Rivolta fascista, dunque, quella di Reggio? Sì e no; la si direbbe, piuttosto, una rivolta rabbiosa di popolo. Rivolta di retroguardia, di campanile? Chiediamocelo con franchezza: Reggio Calabria avrebbe davvero potuto accettare con serenità e maturità un accordo che la escludeva dalla sede universitaria e dalla sede regionale, relegandola, alla fine dell’accordo, quale destinataria di un fantomatico polo industriale? E cosa poteva significare, in quel clima, appellarsi al “senso di responsabilità”, visto che la prima risposta dello Stato era stata la carica immotivata della Celere? Era così difficile sapere che ogni città ha la sua storia e la sua identità, e che quando si calpestano o l’una o l’altra ogni reazioni diventa incontrollabile e irrazionale? Era così difficile, insomma, capire la dignità ferita di Reggio Calabria? Indice delle puntate: 1386100 (n.1); 1386386 (n.2)