Stefano Cappellini, Il Riformista 19/8/2010, 19 agosto 2010
ADDIO SENZA POPOLO PER IL PICCONATORE DEL PALAZZO
«Dov’è la fila?», chiede una signora arrivata al Policlinico Gemelli di Roma per la camera ardente di Francesco Cossiga. I presenti, quasi tutti giornalisti e militari, le spiegano che non c’è. Con suo stupore, può accomodarsi subito. Stavolta il cortocircuito non s’è chiuso: all’enfasi mediatica, alle edizioni straordinarie, alle vagonate di speciali e tributi tv non è seguito il bagno di folla. Probabilmente ci sarà oggi, ai funerali celebrati a Sassari, quando i sardi vorranno rendere omaggio a un uomo che anche nelle sue ultime lettere-testamento ha ricordato il legame con la sua terra. Ma a Roma, nella città dove Cossiga è arrivato giovanissimo parlamentare della Repubblica, dove ha costruito passo dopo passo un brillantissimo cursus honorum, il popolo non c’è. Certo, è il 18 agosto. Arrivare al Gemelli non è impresa comoda per chi non dispone di auto blu. Ma, in fondo, non c’è da stupirsi troppo.
Perché Cossiga è sempre stato, forse sopra tutti, un uomo del Palazzo. E il Palazzo ha risposto al completo. Alla camera ardente si sono presentati tutti i vertici dello Stato: il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e i presidenti di Camera e Senato Gianfranco Fini e Renato Schifani. E mezzo governo: il ministro dell’Interno Roberto Maroni, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti, il ministro della Difesa Ignazio La Russa. E ancora Roberto Calderoli, Mara Carfagna, Stefania Prestigiacomo. Sono arrivati anche i due ex capi dello Stato Carlo Azeglio Ciampi (accompagnato dalla moglie Franca) e Oscar Luigi Scalfaro, il governatore di Bankitalia Mario Draghi e il suo predecessore Antonio Fazio. Tanta roba. Ma, naturalmente, nessuna fila.
Cossiga ha servito le istituzioni, come si è premurato di sottolineare soprattutto nella lettera inviata a Napolitano, e le ha anteposte a tutto, seguendo spesso una logica spesso di spietato realismo. Non dissimile da quella di Giulio Andreotti, anche lui presente ieri al Gemelli, ma senza averne gli strumenti di consenso sul territorio: le correnti regionali e i clientes. A casa e negli uffici di Cossiga era più facile si presentasse un agente dei servizi a caccia di promozioni (divise, infatti, ce n’erano tante al Gemelli: carabinieri, militari, intelligence) piuttosto che un padre in cerca di raccomandazioni per un posto di lavoro al figlio, il genere di segnalazioni che si accumulavano invece in gran quantità sulla scrivania andreottiana di piazza San Lorenzo in Lucina. Ma anche senza possedere, di Andreotti, la ruffiana civetteria popolare: i siparietti da tifoso romanista, gli aneddoti di vita coniugale, le celebrazioni al Bagaglino. Era simpatico sì, Cossiga, come confermano sinceramente tutti coloro che l’hanno frequentato, ma di una simpatia molto diversa da quella, anch’essa ben più seduttiva, del suo predecessore al Quirinale Sandro Pertini, di cui subì per anni il peso del confronto, uscendone inevitabilmente schiacciato in termini di popolarità sia nella versione di presidente silenzioso, fino al 1990, sia nel biennio da Picconatore.
Per giunta, lontani gli anni del suo protagonismo politico, Cossiga ha attraverso la Seconda Repubblica da demiurgo dietro le quinte. Troppo machiavellico per entrare in sintonia col grande pubblico con le sue battute cifrate. Troppo spregiudicato per accendere passioni partigiane, lui che ha votato due volte la fiducia ai governi di Silvio Berlusconi, accompagnandone con benevolenza l’ingresso in politica, ma che è stato anche il mallevadore del primo esecutivo a guida postcomunista. Era capace di prodursi in dichiarazioni di voto per Rifondazione comunista e poco dopo tessere l’apologia di una giunta militare. Simpatizzava in egual misura per i “vinti” baschi e per i “vincitori” amerikani. Persino in famiglia sembrava essersi riprodotto una divaricazione naturale, col figlio Giuseppe sottosegretario del governo Berlusconi e la figlia Annamaria simpatizzante di sinistra (Cossiga si divertiva molto a raccontare che aveva preso la tessera dell’associazione dalemiana Red).
Finché è rimasta in piedi la Prima Repubblica, la sua identità di democristiano lo ha messo da una parte della barricata. Dopo averla picconata egli stesso, quella barricata, non ha più né saputo né voluto trovare posto. Non aveva bandiere da offrire al paese che per tanti anni ha governato e rappresentato. E alla fine si è congedato come prima o poi toccherà a quella Seconda Repubblica che ha contribuito a fondare e che lui stesso non amava: senza popolo.