Valeria Parrella, la Repubblica 19/8/2010, 19 agosto 2010
PROVATE A IMMAGINARE LA VITA DEI DETENUTI
Ogni volta che ho pensato di suicidarmi, lo dico senza compiacimento, ma ci ho pensato qualche volta, sì, in momenti di afflizione che mi parevano senza scampo, o intollerabili per lungo periodo, ma insomma: tutte le volte che io ho pensato di suicidarmi, ho pensato di farlo lanciandomi dal sesto piano di casa mia - è un palazzo antico, ogni piano è più di 5 metri: con molta probabilità, e un po´ di fortuna, sarebbe stata morte sul colpo -. Il sette gennaio di quest´anno, nella Casa circondariale di Verona, Giacomo Attolini, un uomo di 49 anni, si è impiccato utilizzando una maglietta legata alle sbarre. Quando l´ho letto ho pensato che forse se invece del sesto piano avessi avuto una maglietta, e invece di un sms a Pierluigi o una chiamatina in lacrime a Nicola fossi stata piantonata in un reparto di infermeria, forse oggi non starei a scrivere queste righe. Non sono una detenuta e non la voglio fare semplice. Ma non posso non pensarci nell´unico modo in cui riesco: immaginandolo. È cominciato il giorno in cui l´associazione "il carcere possibile" ha fatto l´esperimento "detenuto per un minuto". A piazza dei Martiri, che ha una bella colonna in memoria dei napoletani caduti per la Libertà, è stata installata una cella, chiusa, vera, per la quale le stesse guardie carcerarie che hanno coadiuvato i penalisti nell´esperimento si meravigliavano: «è fatta proprio bene, avvocà». Entravamo in un corridoio, fuori c´era il sole, così lasciavamo i nostri effetti personali e il sole, rispondevamo a un questionario e poi venivamo introdotti in questa cella. Per un minuto. Un minuto simbolicamente scandito da una clessidra, seduti lì dentro sulle brande con gente che non conoscevamo, chiusi dentro. Un minuto in cui non si poteva stare in piedi tutti insieme per mancanza di spazio. Solo questo, ma quanto bene e quanto meglio mi ha fatto, dopo aver girato siccome imbecille nella spirale di Richard Serra piazzata da Bassolino a piazza Plebiscito uno di questi natali, e mai spiegata, mai offerta veramente. Perché c´è una politica (nel senso di farsi cittadini) che avvicina, e una che allontana. Una che immerge e una che distoglie. E c´è un momento, questo, in cui non si può fare finta. Appena qualche giorno fa, per il secondo anno, i parlamentari hanno fatto finta: su invito degli infaticabili Radicali, 200 tra parlamentari, eurodeputati e consiglieri regionali sono entrati a ferragosto nelle carceri italiane. Cosa avranno veduto? Uso sempre (solo?) l´immaginazione: pochi metri quadri, dieci persone, un solo servizio igienico a vista e un lavabo in cui ci si lava e si lavano gli alimenti, che vengono cucinati nel medesimo spazio; letti a castello che arrivano all´unica finestra che dà luce alla stanza, dove si fa a turno a scendere dal letto per poter stare in piedi; la televisione sempre accesa, unico diversivo oltre alle sigarette che vengono fumate senza sosta: detenuti bagnano asciugamani da mettere vicino la finestra per filtrare l´insopportabile caldo. Tutto questo per ventidue ore al giorno, mentre per le restanti due è consentito passeggiare in un cortile assolato. Cosa è rimasto di questa immagine? Qualcuno lo sa?
È ovvio che, se non lo diciamo noi che siamo fuori, a quale atto dovremo affidarci perché qualcuno di essi, larve del nostro tempo da noi non solo non riabilitati ma umiliati e offesi, senza diritti, alzi la voce?
Risse che finiscono in laghi di sangue a opera della polizia penitenziaria, lenzuola bruciate dai finestrini, scioperi della fame? È questo quello che ci aspettiamo facciano, o meglio: che non ci aspettiamo che facciano giacché la gran parte dei cittadini se ne strafotte dei detenuti, e anzi la detenzione ha pure questo di punitivo oltremodo: il regalo dell´invisibilità. Ovviamente io non sto parlando di indulto, bensì di carcerazione che si svolga secondo i dettami della Costituzione, e di quella costituzione più ampia che si chiama diritti dell´uomo e del cittadino: nel carcere di Bollate diretto da Lucia Castellano i reclusi sono addetti alla vita interna dell´istituto, e altri lavorano alle dipendenze di aziende esterne o al servizio di cooperative sociali e altri ancora proprio all´esterno sulla base dell´art. 21 e tutte queste occasioni non solo abbattono il sovraffollamento ma diventano "riabilitazione"? Un venerdì mattina (il venerdì è il giorno delle visite per il padiglione Salerno, dalle 7 alle 12) andai con una mia amica pressante al mercato di Poggioreale per comprare le scarpe - Poggioreale è un quartiere struggente di Napoli su cui insistono tre cimiteri, un carcere e un aeroporto -, ebbene fin dal principiare di questa strada lunga, scandita dalle traversine dei binari del tram 29, io cominciai a vedere, ma già da piazza Nazionale, dico, una piazza anni settanta ottagonale, larga abbastanza da aprire su una prospettiva ampia, iniziai a scorgere una fila di donne e uomini, più donne e meno uomini, di bambini piccoli, alcuni aggrappati al seno delle madri, di vecchi decrepiti. Una fila che radeva il muro del muro di cinta della casa circondariale e poi continuava, codazzo senza speranze, senza nessuno potersi proteggere da sole e intemperie, come io non ne avevo vedute mai nella mia Napoli di così misere e vessate e silenti, ordinate, non chiassose e trafelate come ce le si immagina al sud. E difatti di quale sud trattavasi ché scure in volto erano molte di quelle donne, e stracce, eppure di quello straccio che si riconosce subito essere l´abito migliore, quello messo da parte per la festa. E così in questo venerdì, passo svelto, io avanzavo e superavo la fila, ché il caldo era già forte e non si procedeva affatto, ma anzi l´ultima parte di questa fila si incanalava in una doppia parete antiproiettili di "protezione" che quindi regalando la possibilità di entrare, costringeva all´immobilità degli spazi. Andavano per trovare i loro detenuti. E pareva, nei miei occhi, come in quelle descrizioni senza tempo di Agotha Kristof o come in Resurrezione di Tolstoj senza il conforto della pagina finale del Vangelo, sembrava che dovessero patire pure loro: che a essere le madri e le mogli e i figli dei carcerati, fossero anche loro destinati a spartire parte della pena. Perché era chiaro che gli ultimi di loro, buona parte della fila, non sarebbero entrati. Eppure restavano. E sarebbe passata un´altra settimana e forse due senza vedere marito o madre o figli. E chiedevo - di dove siete? - e di dappertutto nel mondo erano, per le strade dell´umanità erano arrivati là fuori, e se non erano algerini o marocchini, se non erano dell´Est o di Napoli, allora erano di Pescara o delle Calabrie, e avevano raccattato i figli la mattina all´alba e li avevano messi sul treno. Alcuni non sapevano rispondermi. Non conoscevano la lingua. E se questa è l´umanità fuori io non ho potuto che immaginare (ancora, sempre) l´umanità dentro. In un certo senso per il cittadino libero, per me, vale con il detenuto che non conosco (ma che rappresento e mi rappresenta in quanto Sostanza dello Stato), quello stesso principio di rapporto che vedo tra le famiglie dei detenuti e i detenuti: ci si può sentire dignitosi, cioè degni, fuori, solo se si assicura dignità dentro. E qualcuno ne deve rendere conto.
Lo sto aspettando quell´uomo politico, andrei di corsa a votare un leader che nel suo programma si facesse carico di questa responsabilità: un uomo libero che si preoccupi di chi non è libero, che ridefinisca le condizioni e di questa libertà e di questa reclusione, in breve che si domandi che cosa è un Uomo, o che si auguri per sé quell´attimo che Goethe per bocca di Faust si augurava per tutti, quello del Vedere e vivere, su libero suolo come un popolo libero. Quello è l´unico discorso politico che ancora può prendere vita, e questo uno dei luoghi da cui nascere, perché veramente, ma davvero: non esiste altra possibilità per l´individuo che voglia vivere con dignità, che il garantire o il lottare affinché questa dignità sia bene condiviso.