Varie, 19 agosto 2010
SCHEDONE IRAQ
Dopo sette anni e mezzo la guerra in Iraq, che portò al rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è virtualmente finita: con oltre dieci giorni di anticipo rispetto al calendario stilato dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama, l’ultima brigata da combattimento americana ha superato durante la notte la frontiera che separa l’Iraq dal Kuwait. Fonti dell’amministrazione Obama hanno però precisato che la missione di combattimento cambierà natura solo «dal 31 agosto, quando le brigate rimaste saranno riconvertite in forze di assistenza» alle truppe irachene. Ad oggi i militari Usa stanziati in Iraq sono 56.000. [1]
La guerra in Iraq fu iniziata nel marzo 2003 dall’allora presidente degli Stati Uniti George W. Bush, convinto che Saddam Hussein possedesse armi di distruzione di massa (che non sono mai state trovate). Il primo maggio del 2003, nel famoso discorso della “Mission Accomplished” a bordo della portaerei Lincoln, al largo di San Diego in California, Bush dichiarò la fine dei combattimenti, che sono invece durati molto più a lungo casuando oltre 4mila morti militari americani e decine di migliaia di vittime irachene. La stabilizzazione dell’Iraq cominciò solo nel 2007, quando si viaggiava a una media di 3.000 morti al mese, col cosiddetto “surge” del generale americano David Petraeus. [1]
In base all’accordo firmato nel novembre 2008 da Bush, le truppe combattenti Usa in Iraq, che a un certo momento avevano raggiunto le 150mila unità, dovevano lasciare il Paese entro la fine del mese. [1] L’evacuazione è avvenuta in anticipo, e in segreto, per non esporre i soldati ad attentati e imboscate. I 50.000 soldati americani che resteranno in Iraq dopo il 31 agosto saranno in gran parte destinati all’addestramento delle nuove forze di sicurezza locali. Il loro ritiro è previsto entro la fine del 2011. [2]
Gli americani costituiscono il 90% delle truppe attualmente in Iraq. Nel 2003, quando iniziò l’invasione, la coalizione era composta da 48 Paesi a cui poi se ne aggiunsero altri. Molti contingenti si sono già ritirati: l’anno scorso se ne andarono in venti tra cui Australia, Polonia, Giappone, Danimarca e Repubblica Ceca. L’Italia lasciò l’Iraq nel novembre del 2006, attualmente nel Paese sono presenti 90 nostri connazionali con compiti di consulenza, formazione e addestramento. [3]
In Iraq la situazione non è ancora stabile: nonostante le elezioni si siano svolte lo scorso 7 marzo, i politici locali non sono ancora riusciti a formare un governo. [2] Valeria Fraschetti: «Le urne non avevano registrato la vittoria netta di nessuno dei contendenti. Dopo cinque mesi di inutili trattative, lunedì sono stati sospesi i colloqui per la formazione del governo. A chiamarsi fuori dai negoziati è stata la lista Al-Iraqiya di Iyad Allawi che rappresenta sunniti e sciiti: Allawi ha gettato la responsabilità dello stallo sul rivale e premier uscente Nouri Al Maliki, che guida l’Alleanza dello Stato di diritto, accusandolo di usare toni “settari”». [4]
I risultati definitivi del voto sono giunti solo a maggio ed è da allora che i negoziati sono entrati nel vivo. Dalle urne non è uscito un chiaro vincitore: lo schieramento del premier uscente Nouri Al Maliki è stato battuto (89 seggi contro 91, su 325) da quello del suo predecessore Iyad Allawi e le trattative tra i gruppi sciiti, sunniti e curdi non hanno ancora prodotto risultati. Il curdo Hoshyar Zebari, ministro degli Esteri nei diversi governi che dalla guerra del 2003 hanno guidato il “nuovo Iraq”: «Il problema è che nessuno vuole stare all’opposizione». [3] Le divisioni politiche si innestano in quelle religiose e geopolitiche: gli sciiti, spalleggiati dall’Iran, non accettano Allawi premier. [5]
Ahmed Sadkhan Mhooder, uno dei leader del partito Dawa, lo storico movimento base dell’ascesa politica di Al Maliki, ha spiegato che l’accordo così non si può fare: «Perché vogliono a tutti costi Al Maliki e il Dawa fuori dal governo? Io so soltanto che il Dawa ha combattuto Saddam Hussein per trent’anni, e 340 mila uomini che lo appoggiavano sono stati uccisi durante la dittatura. E so che il Dawa è l’erede di tutti quelli che per secoli hanno difeso la famiglia del Profeta Maometto contro gli Omayyadi, gli Abassidi, gli Ottomani. Dà fastidio l’interferenza dell’Iran? Però quella della Turchia e dell’Arabia Saudita no!». [5]
Sull’altro lato è la paura dell’Iran a dettare l’agenda. Abdul Qadir Salem, esponente della lista sunnita Tawafuq: «Gli americani hanno abbandonato l’Iraq nelle mani dell’Iran, hanno fatto un accordo segreto. Oramai viviamo in una vera occupazione iraniana. E tutti sanno come vengono trattati quelli che non sono sciiti». In queste condizioni per i leader trovare un compromesso è quasi impossibile. [5] Hoshyar Zebari: «Il ritardo nella formazione del governo non può che lasciare spazio alle forze dell’eversione. Al Qaeda, il terrorismo, il settarismo prolificano in questa situazione di stallo». [3] Negli ultimi mesi le violenze sono aumentate: solo a luglio i morti sono stati 500, una cifra che non si raggiungeva dal maggio del 2008. [4] Martedì un kamikaze si è fatto esplodere in un centro di reclutamento dell’esercito di Baghdad uccidendo 60 persone. [6]
Per Zebari se si è arrivati a questo punto la colpa è anche di Obama: «Le iniziative si fermano a metà strada. Non procede nel negoziato israelo-palestinese, non in Libano, va male in Afghanistan e Pakistan. Non vedo successi, nonostante il grande impegno». La passività di Washington sarebbe tra le cause che ritardano la formazione del governo: «Alle elezioni del 2005 i problemi furono molto minori, le interferenze straniere quasi nulle. Oggi invece è l’opposto. Turchi, iraniani, siriani, sauditi e tanti altri si mettono di mezzo. Se l’amministrazione Obama fosse stata più attiva nel lavorare per una mediazione, oggi probabilmente avremmo già un nuovo governo a Bagdad e saremmo molto meno deboli». [3]
In Iraq, insomma, se ne vanno gli americani ma arrivano iraniani, turchi, siriani e tanti altri. Zebari: «Ognuno dei nostri vicini vuole dire la sua. È un problema gigantesco per il nostro futuro e non solo per il nostro. Ho cercato di comunicarlo tante volte negli ultimi tempi a Washington: se perdono l’Afghanistan è un Paese solo, se perdono l’Iraq perdono il Medio Oriente. Ma non credo abbiano capito». [3] In attesa che a Washington si sveglino, i legami fra sciiti iracheni e Iran si stringono. Kamal Asseel: «Tanto che l’esercito del Mahdi, il braccio armato di Al Sadr è in stato di “mobilitazione”, pronto a combattere se gli attacchi agli sciiti diventassero massicci come tra il 2004 e il 2007». [5]
Le componenti filo-iraniane si stanno preparando al peggio, cioè a uno stallo politico che alimenti la violenza settaria, approfittando del ridimensionamento del contingente Usa. Asseel: «L’alternativa all’egemonia degli sciiti in Iraq, nei loro piani, è la divisione del Paese in tre “cantoni”, uno curdo, uno sunnita e uno, il più grande, sciita. Un primo passo in questa direzione è stato fatto dai governatori di nove province del centro e del sud che hanno dichiarato di essere pronti a formare una regione federale che includa le loro province. La marcia verso la secessione sarebbe velocissima». [5]
Per scongiurare l’ipotesi di una guerra di secessione, è fondamentale che in Iraq non ci sia una nuova escalation degli attentati. Purtroppo, senza gli americani, il compito diventa particolarmente arduo. Il generale Babaker Zebari, cugino di Hoshyar, comandante delle Forze armate irachene, ancora la settimana scorsa aveva chiesto agli Stati Uniti di rivedere i piani di ritiro: «È prematuro, avremo bisogno di loro almeno finché i nostri soldati non saranno pronti, nel 2020». [7] Premesso che esercito e polizia sono molto cresciuti, che lo sviluppo è stato impressionante quanto ad addestramento, numero di uomini e mezzi, Hoshyar Zebari ha invitato a non fraintendere il cugino: «Si riferiva alla capacità di controllare i nostri confini. Un conto è combattere l’eversione interna e un altro essere preparati nell’eventualità di un attacco da parte di un nemico esterno». [3]
Forse esercito e polizia iracheni sono pronti a combattere l’eversione interna, di certo il Paese, allo stato attuale, non potrebbe resistere a un attacco dall’esterno. Hoshyar Zebari: «Abbiamo bisogno di aviazione, aerei da combattimento, di una marina militare in grado di pattugliare in modo efficiente le acque del Golfo e i terminali petroliferi. Necessitiamo di radar, di capacità di coordinamento tra forze terrestri e aeree. Il vuoto lasciato dalle truppe Usa in queste aree resta grave e ci vorrà tempo prima che noi si riesca a colmarlo». [3]
Il 6 agosto il quotidiano inglese “The Guardian” ha pubblicato un’intervista a Tarek Aziz, altro ex ministro degli Esteri iracheno, numero due di Saddam Hussein in carcere dall’aprile 2003: «L’America e la Gran Bretagna hanno ucciso l’Iraq, noi siamo loro vittime. Ma quando si fanno degli errori bisogna correggerli e non lasciar morire un paese: pensavo che Obama volesse correggere alcuni degli errori di Bush, ma è un ipocrita, non ci può abbandonare così. Sta abbandonando l’Iraq alla mercè dei lupi». [8]
Il ritiro delle truppe Usa, concordano gli esperti, era inevitabile. John Fisher Burns, inviato del New York Times, due volte premio Pulitzer: «I leader americani sanno che l’opinione pubblica è contro la presenza militare in Iraq e Afghanistan. Bisogna uscire, anche se sono coscienti che potrebbe derivarne la guerra civile e il caos totale. Maliki, come del resto ogni altro premier iracheno, non può assolutamente chiedere agli americani di restare, diventerebbe troppo impopolare». Altrettanto inevitabile sarebbe, senza gli americani, l’implosione del Paese. Fisher Burns: «Uno degli assunti che avanzano i sostenitori del ritiro è che, dopo anni di stragi, gli iracheni hanno imparato sulla loro pelle e dunque faranno del loro meglio per mettersi d’accordo. Penso che ciò non abbia alcun fondamento. Purtroppo mi viene da dire che il futuro potrebbe rivelarsi molto peggio del passato». Secondo Tarek Aziz l’unica speranza è l’arrivo di un nuovo uomo forte. Fisher Burns: «Speriamo non si riveli assassino e psicopatico com’era Saddam. Per il resto non so». [9]
Per vedere le cose con un qualche ottimismo bisogna sperare che abbiano ragione quanti sostengono che in realtà il miglioramento avvenuto dal 2007 non è dipeso dagli americani. Il generale Fabio Mini, ex comandante della missione Nato Kfor in Kosovo: «In Iraq la controinsurrezione morbida ha funzionato solo con la reintegrazione e il potenziamento delle strutture di potere del precedente regime. Il ripristino ha funzionato perché l’Iraq non ha mai cessato di essere uno stato nonostante l’impegno americano nello sfasciarlo, perché gli interessi degli affari e della guerra vengono salvaguardati dai mercenari e dai sunniti di Saddam che hanno ripreso il controllo dell’intelligence, della sicurezza e sono oggi i più affidabili guardiani degli americani rinchiusi nelle basi come ostaggi». [9]
Note: [1] repubblica.it 19/8/2010; [2] Lorenzo Cremonesi, corriere.it 19/8/2010; [3] Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 13/8/2010; [4] Valeria Fraschetti, la Repubblica 18/8/2010; [5] Kamal Asseel, La Stampa 3/8/2010; [6] Francesco Semprini, La Stampa 18/8/2010; [7] la Repubblica 13/8/2010; [8] Vincenzo Nigro, la Repubblica 7/8/2010; [9] Lorenzo Cremonesi, Corriere della Sera 13/8/2010; [10] Fabio Mini, L’espresso 8/7/2010.