Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  agosto 19 Giovedì calendario

«MA IL FEMMINISMO È NATO AFRICANO»

Il femminismo? In Africa esisteva ben prima che le donne, in Occidente, cominciassero a scendere in piazza per rivendicare il proprio spazio nella società. E l’influsso europeo non ha fatto che neutralizzare e poi appiattire nell’uniformità una tradizione autoctona che permetteva alle africane di emergere nelle loro comunità, senza che nessuno si scandalizzasse. Non usa mezzi termini Sylvia Serbin, storica e giornalista afro-antillana che ha messo al centro dei propri studi l’attivismo femminile nero. Studi che, tra l’altro, sono confluiti nel volume Reines d’Afrique et héroïnes de la Diaspora noire
(Sepia), dedicato a grandi protagoniste che hanno fatto la storia dell’Africa e della diaspora.
«Le donne africane si sono sempre coinvolte nelle grandi imprese e nelle lotte delle loro società. E invece i media occidentali tendono a trasmettere di loro solo l’immagine di vittime: dell’ignoranza, della miseria, della mancanza di cure, dell’Aids…».
Ma tutti questi non sono problemi reali?
«Senz’altro, ma mostrare solo questo aspetto significa relegare nell’ombra un gran numero di donne d’azione, protagoniste, per esempio, in quasi tutti i campi dell’economia, dall’agricoltura al commercio passando per settori di punta come la ricerca o la finanza. Non parliamo abbastanza di tutte quelle combattenti, eredi di personaggi come la regina Anne Zingha d’Angola, che nel XVII secolo resistette per tre decenni ai conquistatori portoghesi, o come la senegalese Ndete Yalla, che nell’Ottocento guidò la resistenza alle truppe del generale francese Faidherbe. Ma anche profetesse dei nascenti nazionalismi: la più nota è la giovane Kimpa Vita, la ’Giovanna d’Arco congolese’, che creò un movimento messianico anticoloniale e, nel 1706, finì ventiduenne sul rogo. E ancora, lady di ferro come Madam Tinubu, grande commerciante e potente politica della Nigeria del XIX secolo, detentrice di un quasi-monopolio nel commercio di olio di palma con la Gran Bretagna ai tempi della rivoluzione industriale. La vera domanda che dovremmo porci è: perché, nell’ultimo secolo e mezzo, questa tradizione ha avuto una forte battuta d’arresto?».
E qual è la sua risposta?
«Io credo che questa cancellazione della donna africana sia dovuta all’impatto di influenze esterne che hanno gradualmente allontanato dalla scena pubblica le ragazze, per tornare a relegarle ai fornelli. È evidente che, con l’avvento dell’islam, regine e donne d’azione ammirate nel loro tempo si trovarono cancellate della memoria storica per dettami spacciati come religiosi.
L’occupazione coloniale da parte di società europee di stampo patriarcale completò in seguito l’opera di esclusione delle donne dalle funzioni economiche e sociali detenute anteriormente, a vantaggio di un’autorità esclusivamente maschile. E lo fece con la complicità della scuola».
Che cosa significa?
«Attraverso la politica di assimilazione francese, la scuola coloniale contribuì, per esempio, a diffondere un modello che assegnava la donna indigena ai lavori domestici, a immagine dell’europea sposa, riproduttrice e senza diritto di voto fino alla metà del Ventesimo secolo. E se da una parte l’istruzione favorì, certamente, l’emancipazione di un’élite portatrice di nuove ambizioni, relegò però la grande maggioranza delle donne, quelle non alfabetizzate, a uno status sociale marginale, a differenza del passato, quando un temperamento forte poteva bastare a proiettare una ragazza verso un ruolo importante nella propria comunità».
Poi però, arrivò il femminismo occidentale…
«Fin dall’inizio ci furono donne africane che si coinvolsero in questo movimento per tentare di ritrovare i loro diritti perduti e che conquistarono la scena politica internazionale. Basti pensare a protagoniste come la liberiana Angie Elisabeth Brooks, titolare di un dottorato in diritto, che nel 1969 presiedette l’Assemblea generale dell’Onu, o la guineana Jeanne Martin Cissé, ambasciatrice del suo Paese alle Nazioni Unite, prima donna, e finora unica, ad avere presieduto il Consiglio di sicurezza, dal 1972 al 1976. Ciò che può far sorridere, tuttavia, è che queste attiviste, a immagine delle colleghe occidentali, lottavano per la conquista di posti simbolici per le donne negli esecutivi, quando in passato le nostre società avevano conosciuto un potere femminile reale! Allora, vedere che, tuttora, le quote rosa sono viste come un passo in avanti, fa specie…».
Come giudica il protagonismo femminile in Africa oggi?
«Devo dire che molti passi sono stati fatti. Possiamo vantare grandi personalità, come la presidente liberiana Ellen Johnson-Sirleaf, o l’attivista premio Nobel Wangari Maathaï.
Ma quello che forse dà più speranza sono le tantissime ’eroine quotidiane’: contadine che lavorano duramente e si organizzano in cooperative per ottenere il diritto al credito e modernizzarsi, commercianti audaci, madri di famiglia che si arrangiano tra varie attività informali per dare da mangiare ai loro figli. Ma anche milioni di donne che, ad immagine delle loro antenate, si impegnano coraggiosamente in battaglie politiche e civili per la democrazia, l’istruzione, la sanità... Donne che tengono in piedi il continente, e che dovrebbero essere valorizzate molto di più».
Chiara Zappa